Joker is me. Qualche nota rapsodica sui Marmi Elgin
Lady Gaga che, con passo bellicoso, discende lo scalone del Louvre avendo alle spalle la Nike di Samotracia è una visione sontuosa; fors’anche perché in molti vorremmo tornare a vivere “Folie à deux”.
Nike, Vittoria: da qui il marchio che denomina popolari scarpe sportive e l’ala (“swoosh”) che altro non è che la stilizzazione dell’ala dell’opera attribuita a Pitocrito che la giovane grafica Carolyn Davidson disegnò nel 1971 per il favoloso corrispettivo di 35 USD.
C’erano del resto illustri precedenti: Filippo Tommaso Marinetti ad ignominiam (più bella un’automobile ruggente), Umberto Boccioni, Salvador Dalì. Non risulta a chi scrive che vi siano rivendicazioni del Governo greco riguardo alla statua illo tempore posta alla sommità del tempio dei Grandi Dei; pare infatti che all’epoca sia stata regolarmente acquistata.
Diversa è la vicenda dei lacerti del Partenone.
“Quod non fecerunt Gothi fecerunt Spoti”, scrisse una mano ignota (probabilmente Lord Byron) nel 1801. Scozzese era appunto Thomas Bruce settimo Conte di Helgin e ambasciatore di Sua Maestà Britannica a Costantinopoli. Il Partenone fu spogliato, in modo tra l’altro rude e maldestro, di fregi e metope.
I vecchi Ateniesi narrano la leggenda che le cinque cariatidi superstiti (oggi esposte nel bello e moderno Museo dell’Acropoli) piangano al crepuscolo le loro sorelle rapite. Atena Pronakos (colei che si schiera in prima linea) non insorse, purtroppo; insorsero invece i maggiori artisti e intellettuali dell’epoca: Antonio Canova, richiesto il restauro, rifiutò con sdegno; Lord Byron scrisse: “Non c’è motivo che possa scusare e rifiuto anche di pronunciare il nome degli artefici di questa vile devastazione”, “È chiuso l’occhio di chi non piange, bella Grecia, nel vedere le tue mura deturpate e i tuoi templi distrutti da mano inglese”; la pubblicistica definì Lord Helgin un predone.
A dispetto di ciò l’operazione piratesca ebbe buoni risultati di marketing e commerciali. Settantacinque metri di fregio, diciassette statue di frontoni e quindici metope furono esposte a Londra con grande successo di pubblico tra il 1802 e il 1804. Grazie a ciò Helgin ebbe il premio della sua razzia: vendette (s’immagina non a buon mercato) al Governo inglese che li collocò al British Museum dove tuttora stanno. Joker is me avrebbe potuto sogghignare Sua Eccellenza.
Checché se ne dica il “titolo d’acquisto” di Lord Helgin era a dir poco ambiguo, a dir meglio inconsistente. Il firman decretato nel 1801 da un alto funzionario della Sublime Porta stabiliva infatti che “il fedele amico e la sua equipe di pittori inglesi avessero facoltà di entrare e uscire dal ‘Castello d’Atene’ e libertà d’azione senza essere molestati da alcuno né vi sia opposizione se portano via qualche pezzo di pietra con iscrizioni o figure”.
Qualche pezzo di pietra? Byron riferisce che Helgin caricò quattro o cinque vascelli diretti a Londra.

Lo Stato greco non ha rinunciato a rivendicare il maltolto, tanto che al Museo dell’Acropoli è stato appositamente tenuto spazio per il patrimonio trafugato oltre due secoli fa. La restituzione era però improbabile a meno che non risorgesse Pericle e la temuta flotta, o un “tizio di Brooklyn” (Henry Miller, amante riamato di Anaïs Nin, moderna Afrodite, e che col caso deciso dalla Corte Suprema nel 1961 – Grove Press Inc. v. Gerstein – scardinò negli Stati Uniti la censura) a sua volta risorga per perorare la causa nell’agorà oggi inetto che si chiama Nazioni Unite sotto l’egida di Atena
Divagando a riguardo: polis non è una indicazione geografica, una città, ma una forma di Stato e di Governo; l’autogoverno dei cittadini con previo dibattito. Atene non era solo polis in sé, ma “Ton Athenaion” (degli Ateniesi). In questi tempi di tenebra e violenza andrebbe rammentato.
Per colmo di malasorte, Lord Byron morì in Grecia dove si era recato come volontario per combattere per l’indipendenza della sua patria d’elezione solo tre anni dopo.
Come è stato ben scritto “La lotta di indipendenza greca fu la prima rottura di sistema [del congresso di Vienna (nds)] e suscitò nell’opinione pubblica colta europea una straordinaria mobilitazione e un’ondata di simpatia tali che si fondevano ideali romantici e amore per l’età classica (filellenismo). Molti furono i volontari che si recarono a combattere con gli insorti”.
L’aristocrazia britannica non rinunciò comunque all’ultimo schiaffo a quel suo figlio anticonformista: al funerale nel Nottinghamshire sfilò una lugubre e interminabile carovana di carrozze listate a lutto, ma vuote. Lord Byron in un momento di preveggenza aveva però disposto che in caso di rientro del suo cadavere in Inghilterra il cuore fosse estratto e sepolto in Grecia, a Missolungi. Oggi lo si potrebbe definire un ace: un colpo di battuta ben assestato, non iniziale, ma finale in limine. Lord Helgin morì invece diversi anni dopo a Parigi dove si era rifugiato per sfuggire ai creditori.
Ai primi del secolo scorso archeologi americani rasero al suolo un intero quartiere per fare emergere i resti dell’agorà: cercavano le radici della loro Democrazia. Se ciò sia stato virtuoso o ignobile lasciamo al lettore giudicare, ma è certo un precedente illuminante… e calino le Benevole.
Veniamo però al diritto (come se fin qui si fosse parlato d’altro).
Il primo protocollo addizionale alla Convenzione europea dei Diritti umani, relativo al diritto di proprietà, prevede un’indiretta tutela dei beni culturali e su tale base la Corte EDU ha ritenuto che sia obbligo a cui i poteri pubblici devono attendere trattandosi “di un valore essenziale” al fine della “preservazione delle radici storiche, culturali e artistiche di una regione e dei suoi abitanti” (19.2.2009, Kozaichoglu v. Turchia). Benché l’applicazione pratica della CEDU abbia avuto a oggetto solo provvedimenti statuali espropriativi o limitativi nei confronti di privati, a chi scrive pare che il principio enunciato dalla Corte abbia più generale portata, sancendo un obbligo a carico degli Stati aderenti alla Convenzione di difendere il loro patrimonio culturale.
L’UNESCO (il cui motto tragicamente inattuale è Construire la paix dans l’esprit des hommes) con la Convenzione del 1970 “Means of Prohibiting and Preventing the Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural Property” è rimasta sostanzialmente un flatus vocis (pur se ratificata da 137 Stati) avendo la stessa agenzia specializzata delle Nazioni Unite chiesto ad altra – Unidroit – di studiare in maggior dettaglio le questioni di diritto privato pertinenti alla materia. La Convenzione Unidroit sul “Ritorno internazionale di beni culturali rubati o illegittimamente esportati” del 1995, benché non retroattiva, specifica però all’articolo 10 che essa “non legittima in alcun modo un’operazione illecita di qualunque natura che ha avuto luogo prima della [sua] entrata in vigore […] né limita il diritto di uno Stato o di altra persona di intentare, al di là della presente Convenzione, un’azione per la restituzione e il ritorno di un bene culturale rubato o illegittimamente esportato prima dell’entrata in vigore”. La norma potrebbe quindi avere anche l’effetto di paralizzare un’eccezione di usucapione opposta all’azione di rivendica. Né può eccepirsi la prescrizione del diritto di restituzione nel caso di beni che “facciano parte integrante di un monumento o di un sito archeologico identificato”.
Passando dalle fonti internazionali a quelle sovranazionali, l’importanza è la Direttiva UE 60/2012 (che supera la precedente 7/1993 e successive modificazioni e riforma il Regolamento 1024 del 2012) relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illegittimamente dal territorio di uno Stato membro, attuata in Italia con Decreto Legislativo 71/2016. Essa anzitutto fornisce una definizione unitaria (rectius unionista) di bene culturale anche in applicazione dell’articolo 36 TFUE intendendosi per tale ciò che è così classificato da uno Stato membro senza specificazione di procedimento anche ex post rispetto alla sua esportazione e rendendo il valore economico dell’opera un fattore neutro. Contraddittoriamente però secondo la dottrina maggioritaria la licenza d’esportazione (che è procedimento amministrativo) prescritta dal Reg. 116/2009 è condizione per la liceità dell’uscita di un bene culturale dal territorio di uno Stato membro, con effetto di sostanziale sterilizzazione dell’articolo 2 numero 1 Dir. cit.. Tralasciando i profili processuali e di collaborazione fra Stati membri va invece notato, per quanto qui interessa, che il termine di prescrizione dell’azione (3, 30 o 75 anni) non si applica laddove secondo il diritto interno dello Stato membro de quo questa sia imprescrittibile.
La legge greca sulla protezione delle antichità e del patrimonio culturale (art. 21 L. 3028/2022) appunto prevede l’imprescrittibilità della proprietà statale dei beni datati ante 1453 che dichiara extra commercium. Il 1453 fu l’anno della caduta di Costantinopoli a seguito della quale i Turchi conquistarono la Grecia che entrò a far parte dell’Impero Ottomano.
Anche dal punto di vista della Direttiva le pretese greche sugli Helgin’s Marbles non paiono infondate. Tanto è che è recente la notizia che a seguito di un incontro tra i Primi Ministri dei due Stati (Starmer e Mītsotakīs) il Governo britannico ha comunicato che “non si opporrebbe” al ritorno dei marmi in Grecia. L’ipotesi che si starebbe negoziando pare essere un prestito a lungo termine incrociato dove il Governo greco concederebbe in cambio a quello britannico per l’esposizione al restaurando British Museum alcune perle quali la Maschera di Agamennone, cuore e fulcro del Tesoro di Micene.
Nonostante la Sentenza del 2 maggio 2024 della CEDU con cui i giudici di Strasburgo con ampia motivazione hanno confermato la legittimità dei provvedimenti giudiziari italiani che disponevano la restituzione e confisca dell’Atleta vittorioso di Lisippo acquistato nel 1977 dal J.P. Getty Trust, la querelle non si placa. Il Getty ha infatti comunicato che: I) le sentenze della Corte non sono vincolanti per gli Stati che non sono parte della relativa Convenzione; II) l’atleta non appartiene alla produzione culturale italiana; III) il ritrovamento è avvenuto in acque internazionali. Intanto la scultura resta a Getty Villa di Malibu.
In Turchia, principalmente nella regione del Lago Van, si è invece da anni scatenata la caccia ai tesori degli Armeni con relativa depredazione. Solo da una decina d’anni il Governo Erdogan ha cominciato a pretenderne la restituzione tra l’altro proprio dal Getty Museum, dal British nonché dal Metropolitan dando un giro di vite al commercio internazionale di reperti usciti illegalmente dal Paese. Commercio che però non cessa grazie anche all’occhio benevolo delle locali autorità doganali.
Insomma gli infaticabili lombi di Lord Helgin non cessano di generare progenie. Too many Jokers!

Avvocato