La Siria depredata. Archeologia, guerra e mercato nero: cronaca di una spoliazione annunciata
La Siria sta vivendo una delle fasi più drammatiche nella storia recente del saccheggio del proprio patrimonio archeologico. Secondo l’International Council of Museums (ICOM), le segnalazioni provenienti dalla rete dei suoi affiliati nel Paese descrivono un fenomeno in costante espansione: la diffusione di dispositivi elettronici per scavi clandestini venduti apertamente nelle principali città, la circolazione incessante di oggetti archeologici offerti in vendita sui social network, e un mercato in rapida crescita di manufatti contraffatti, in particolare monete antiche, che rende sempre più difficile stabilire con certezza la provenienza e l’autenticità dei reperti. Quello che un tempo era un traffico sommerso si è trasformato in un circuito visibile, alimentato da complicità locali e da reti operative su scala regionale.
A questa dinamica si aggiunge un’escalation nello sfruttamento dei siti archeologici, culminata nel saccheggio sistematico di aree come Palmira. L’organizzazione ATHAR ha rilevato che quasi un terzo dei circa 1.500 casi di traffico illecito di reperti siriani documentati dal 2012 è avvenuto nel contesto del collasso delle strutture di sicurezza seguito alla caduta del regime di Assad. Si tratta, secondo gli esperti, dell’incremento più rapido mai osservato in scenari simili. Bande armate e soggetti privi di scrupoli, sostenuti anche dalle difficili condizioni economiche della popolazione, hanno trasformato strumenti come metal detector e picconi in strumenti di distruzione sistematica, con danni irreparabili ai contesti archeologici.
L’utilizzo di Facebook come principale vetrina per la vendita di mosaici, busti, monete e statue ha permesso al traffico di estendersi oltre i confini nazionali, con i reperti che passano attraverso paesi confinanti come Turchia e Giordania prima di essere immessi in collezioni private o mercati antiquari europei e statunitensi. Nonostante l’introduzione nel 2020 di alcune politiche di censura da parte della piattaforma, gli effetti concreti di tali misure risultano scarsi: molti gruppi, anche con centinaia di migliaia di membri, continuano a operare impunemente.
In risposta a questa emergenza, l’ICOM ha promosso strumenti come la Emergency Red List dei beni culturali siriani, concepita per supportare le forze dell’ordine, i musei e i professionisti del settore nella lotta al traffico illecito. L’organizzazione ha inoltre sollecitato le autorità siriane, insieme a quelle dei paesi limitrofi, in particolare Libano, Turchia e Iraq, a rafforzare i controlli e a instaurare forme di cooperazione transnazionale efficaci.

A livello internazionale, esistono già strumenti normativi volti a contrastare il fenomeno. La Convenzione UNESCO del 1970, ratificata da 147 Stati, impone la redazione di inventari dettagliati, l’obbligo di certificazioni per l’esportazione e la cooperazione tra Stati per la restituzione dei beni trafugati. Più recentemente, l’Unione Europea ha introdotto, nel giugno 2025, una nuova regolamentazione che prevede l’obbligo di licenze di importazione per i beni culturali di età superiore ai cento anni, in particolare per quelli di valore superiore a 18.000 euro, e documentazione rigorosa per i materiali provenienti da aree di conflitto, come la Siria.

Tuttavia, la vera sfida non risiede nella mancanza di strumenti giuridici, bensì nella loro concreta applicazione e nella volontà politica di contrastare un commercio che, pur depredando le radici culturali di un intero Paese, trova alimento nella domanda dei collezionisti e dei mercati occidentali. Come evidenziano analisi e testimonianze dirette, senza un’efficace riduzione della domanda e senza un approccio globale, coerente e coordinato, la Siria continuerà a essere privata dei propri beni: non solo a causa della guerra e delle devastazioni materiali, ma anche a causa di coloro che, scavando e trafficando, cancellano le tracce stesse delle civiltà che in quei luoghi sono fiorite.

Giornalista