Domus. Gli arredi di Pompei: il passato che abita ancora

Dal deposito alla luce: un viaggio nell’intimità e il sogno di una casa mai perduta

(Tempo di lettura: 4 minuti)

Dallo scavo reale delle case pompeiane allo scavo interiore dei depositi museali, “Domus. Gli arredi di Pompei” non è soltanto un nuovo percorso espositivo: è un’invocazione. È la volontà, quasi sacra, di restituire la vita alle cose. È un gesto d’amore verso la materia, che troppo a lungo è rimasta in silenzio. Si entra in punta di piedi, ma ciò che si attraversa non sono sale: sono stanze perdute, soglie dischiuse, ricordi solidificati. Ogni oggetto, ogni traccia, ogni frammento diventa una voce che racconta l’abitare come forma di esistenza, come espressione del sé e della propria visione del mondo.

Non si cammina tra reperti, ma tra presenze gentili. Una pantera in bronzo sorregge Dioniso in equilibrio eterno. Una sfinge regge il marmo di un tavolino come fosse un segreto. Una lucerna, ancora, sembra in attesa della sua fiamma. Sono esistenze sopravvissute al tempo, pezzi di design antico che hanno orientato il gusto europeo e che ancora oggi influenzano il nostro modo di vivere gli spazi, di disporre, di decorare, con un senso estetico che non è a discapito della funzionalità. Ma prima di essere arte, sono memoria: quotidianità impressa nel metallo, soglia incisa nella pietra. Attraverso circa duecentocinquanta reperti, molti dei quali mai esposti prima, si ricompone il paesaggio intimo di una civiltà sepolta e, insieme, si ricuce il rapporto tra noi e l’idea di casa.
Una casa che era specchio, rito, rappresentazione sociale, ma anche rifugio, affetto, calore. Una casa che continua a parlarci.

Il percorso espositivo, curato da Massimo Osanna, Andrea Milanese e Ruggiero Ferrajoli con la collaborazione di Luana Toniolo, si apre con uno spazio immersivo ispirato alla Casa del Fauno: una soglia virtuale che invita non tanto a osservare, quanto a varcare. Ed è proprio varcando questo spazio che il tempo comincia a dissolversi.

Le sale non raccontano: evocano. La materia parla. Il legno tarlato non è fragile, è vivo. Il bronzo ossidato non è antico, è presente. La nuova illuminazione degli affreschi pompeiani, sebbene non ancora restaurati, ne restituisce la voce sommessa, la vibrazione cromatica, il battito sotterraneo. La luce non espone: accarezza. Dalle sale 91-94, dove la materialità dell’abitare si mostra in tutta la sua quotidiana tenerezza, alle 95-96, in cui si racconta la fortuna moderna di quegli arredi: qui lo sguardo si allarga e scopre come Pompei abbia modellato il design europeo tra Sette e Ottocento, fino a riverberare nelle nostre case.

Oggetti che non sono solo cose, ma presenze. Una panca conserva la curva esatta della schiena che vi si adagiava all’ombra di un atrio. Un tavolino pieghevole custodisce il silenzio delle mani che lo aprivano, lo richiudevano, lo spostavano vicino al fuoco. Un braciere racconta le sere d’inverno, l’odore della legna, i piedi nudi che si riscaldavano accanto alla brace. Sono questi i testimoni muti, eppure eloquenti, di una civiltà che faceva della casa il proprio universo. Bronzi, marmi, legni, terrecotte – sedute consumate, suppellettili ingegnose, lucerne odorose di resine – sono contenitori straordinari di memoria: basta guardarli a lungo per sentire i passi lievi di chi li attraversò, per avvertire la fragranza delle cene, il fruscio delle tuniche, il canto del tempo.
Non si entra in un museo. Si entra in una casa.

Ogni oggetto diventa un appiglio per l’immaginazione, una soglia. Ogni curva cesellata nel metallo, ogni ornamento fitomorfico, ogni figura mitologica rimanda a un ordine familiare, eppure irrimediabilmente altro.
Restituirli alla vista non è un atto di esposizione: è un’evocazione.
È dare carne e respiro a vite rimaste sospese nella cenere.

La parte conclusiva del percorso è dedicata alla fortuna moderna degli arredi antichi. Qui, tra acquerelli, incisioni e fotografie, affiora il modo in cui Pompei è entrata nell’immaginario occidentale: filtrata, reinventata, celebrata. È il momento in cui l’antico si piega all’oggi, e l’archeologia si fa design.

Ma forse il momento più intenso dell’allestimento è la Sala dei Grifi. Qui, gli arredi ottocenteschi disegnati da Giuseppe Fiorelli per il museo – smontati, dimenticati, messi a deposito – tornano a vivere grazie al restauro degli artigiani napoletani. È una doppia resurrezione: degli oggetti e dello sguardo. Come se il museo, a sua volta, fosse una casa della memoria, e questi arredi fossero i suoi custodi. Oggetti che parlano tra loro, che si tramandano la memoria, che si riconoscono anche a distanza di secoli.

In questo dialogo a più voci, tra epoche, materiali, intelligenze, l MANN si fa tempio vivo.
Ogni pezzo esposto è un atto di fiducia nel tempo, una scintilla che accende l’immaginazione.
E quando si esce, si ha la sensazione di aver attraversato qualcosa di più di una mostra.
Forse una storia.
Forse una nostalgia.
Forse un sogno di pietra e fuoco che, per un attimo, ha ricominciato a respirare.

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