L’archeologia del crimine. Quando scavare sul sito non basta

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Se vuoi diventare un bravo archeologo, devi uscire da questa biblioteca
(da Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo)

Abbiamo parlato di frequente, su queste pagine, del compianto Paolo Giorgio Ferri. Nella sua veste di Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, più di altri e prima di ogni altro, si è dedicato con viva passione, serietà e professionalità, alle indagini penali nel contrasto dei crimini contro il patrimonio culturale. Gli va riconosciuta l’intuizione e la messa in pratica di un metodo investigativo che, allargando il fronte inquirente a figure inedite, ha consentito di sviluppare le indagini attraverso un approccio multidisciplinare, in una modalità del tutto innovativa. Si tratta di specialisti della tutela dei beni culturali di varia natura, come gli archeologi, che possono ora affiancare la polizia giudiziaria sin dalle fasi iniziali dell’istruttoria e, soprattutto, intervenire, mettendo a disposizione le proprie specifiche competenze, in occasione di perquisizioni e sequestri, momenti cruciali per le indagini in termini di riscontri probatori.

Questa strategia sinergica si è tradotta in tattica operante sul campo, consentendo agli inquirenti di individuare, nel 1995, il Porto Franco di Ginevra quale snodo principale, di livello internazionale, del traffico illecito di reperti archeologici, facente capo a Giacomo Medici. Gli archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, ingaggiati dal magistrato romano, oltre al ruolo di Funzionari archeologi della Soprintendenza, hanno svolto una ricerca benemerita e certosina, assumendo l’incarico di Esperti. Hanno infatti esaminato migliaia di documenti, di fotografie e di reperti rinvenuti. Un lavoro silente, fuori dalle luci della ribalta, ma fondamentale per strutturare al meglio l’attività del pubblico ministero che deve acquisire tutti gli elementi necessari per sostenere l’accusa in giudizio, nel contesto del dibattimento.

La collaborazione tra i due archeologi e il consigliere Ferri, è proseguita fino al 2012, fino al pensionamento del magistrato che, nonostante non esercitasse più la sua funzione istituzionale, ha continuato a occuparsi della tutela del patrimonio culturale, dedicandosi alla formazione e allo studio nello specifico settore e condividendo la sua esperienza, basata sull’attività svolta sul campo e in prima persona.

Al primo memorabile sequestro in terra elvetica ne sono seguiti altri. In particolare va ricordato quello del 2001 avvenuto presso la galleria di Gianfranco Becchina a Basilea. Nell’occasione fu acquisita una mole impressionante di reperti e un archivio fotografico immenso che documentava le migliaia di pezzi scavati, trafugati e immessi sul mercato illegale sull’asse Italia-Svizzera-Stati Uniti. Curioso ad esempio l’aspetto per cui la provenance di parecchi pezzi è stata ricostruita sulla base dei giornali (quotidiani) con cui erano avvolti o disposti reperti: il dettaglio che fa le differenza. Nel corso di queste e di altre inchieste, sono stati recuperati capolavori, oggetti di pregio assoluto, di straordinaria importanza. Ne ricordiamo, tra i tanti, alcuni che sono saliti alle cronache nazionali, oltre il contesto particolare: il calice a figure rosse attribuito al Pittore di Berlino, due anfore attribuite allo stesso autore, il cratere di Eufronio, la Hydria Micali/Vaticano.

Questi recuperi sono stati possibili grazie all’impegno indefesso del gruppo coordinato da Ferri, che ha consentito di acquisire prove inoppugnabili e fondate sulla dimostrazione dell’origine e della provenienza di ogni singolo reperto. Un lavoro portato avanti con il contributo degli archeologi. È stato così possibile strutturare le attività rogatoriali che hanno permesso di operare all’estero. Gli accertamenti seguiti alle perquisizioni e ai sequestri sono stati fondamentali per ricostruire il modus operandi degli indagati e dei personaggi gravitanti nella galassia dell’illegalità nello specifico settore. Le annotazioni sulle fotografie sequestrate, l’esame dei frammenti, le vicende possessorie dei vari reperti sono stati vagliati minuziosamente. Un’opera fondamentale per addivenire alla restituzione definitiva dei beni, nell’ottica della corretta ricollocazione degli stessi nei luoghi originari che, lo ricordiamo, non è sempre facile individuare, nonostante gli sforzi degli studiosi.

Purtroppo, se da un lato alcuni di questi contesti sono ancora sconosciuti, dall’altro sono stati definitivamente compromessi a causa dei ripetuti scavi illegali, specie in diverse aree del nostro Paese, su tutte l’Etruria, la Puglia e la Sicilia.

Il “metodo Ferri” non ha solo il merito di rappresentare un modello a cui ispirarsi in ambito giudiziario. Ha probabilmente contribuito a risvegliare le coscienze, sensibilizzare persone e istituzioni che, fino a un recente passato, non avevano considerato, in maniera convinta, la corretta definizione di un reperto archeologico e del portato di civiltà che racchiude in sé.

Troppo spesso, personaggi senza alcun scrupolo, dediti al lucro, al malaffare teso al soddisfacimento della vanitas perversa, hanno contribuito a colmare musei pubblici e privati, collezioni importanti, senza nessuna cura della provenienza regolare dei beni. Gli USA in questo senso ne sono stati un esempio. Non è casuale che, nell’ultimo periodo, sia stato possibile assistere a un’inversione di tendenza. È stato possibile far ritornare, entro i confini nazionali, numerosi reperti che, in passato, furono proprio individuati nel corso delle indagini condotte da Ferri. L’attività della Procura distrettuale di Manhattan si è distinta in queste azioni, valendosi di Matthews Bogdanos che, in passato, aveva collaborato con lo stesso Ferri.

In ultima analisi, non possiamo trascurare un aspetto criminologico che queste indagini importanti hanno fatto emergere e di cui, tuttora, si ignora la portata. Il dottor Ferri è stato anche il primo magistrato a considerare il reato di associazione a delinquere quale base giuridica essenziale per l’applicazione della legge penale, utile a perseguire e ad ampliare, con più incisività, le indagini a tutela del patrimonio culturale. Il reato di appartenenza a un sodalizio criminale organizzato e transnazionale è lo strumento cardine per muoversi attraverso gli ordinamenti giuridici che hanno ratificato la Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000. Le associazioni a delinquere, ormai è noto, hanno permeato il mercato dell’arte e delle antichità attraverso personaggi che si sono specializzati a condurre attività illecite nello specifico ambito. Anche in questo campo, i gruppi criminali mantengono una struttura piramidale operante nel paese d’origine, dove i tombaroli e i ladri sono il livello più basso e un livello intermedio dedito a intercettare i beni da destinare all’estero. Nel territori esteri, soprattutto nei cosiddetti “stati buyers”, i referenti delle organizzazioni criminali ingaggiano mediatori e complici, come esperti in materia o restauratori, talvolta organizzati in strutture create ad hoc, che si avvolgono a piene mani del web per promuovere le attività illecite. Queste organizzazioni svolgono di fatto un ruolo importante nei crimini contro il patrimonio culturale: spesso sono gestite attraverso imprese di copertura, dalla facciata lecita.

Su questo fronte bisogna ancora lavorare molto, sotto tutti gli aspetti. Se tutti fossimo davvero convinti dell’importanza di continuare a portare avanti le intuizioni di Ferri, rinnovando, ad esempio le collaborazioni e rendendole semmai più strette, più umane e meno burocratizzate, si potrebbero raggiungere risultati più efficaci. Partiamo da qui: diffondiamo le sue idee, i suoi metodi, che hanno fatto storia, innalzandolo al rango di insuperato Maestro.

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