Tracce rubate e memorie ritrovate al Museo delle Antichità Etrusche e Italiche della Sapienza

Un viaggio attraverso i segni del saccheggio e le operazioni di recupero che ricompongono la storia frammentata di “Caere” nel cuore dell’Etruria antica

(Tempo di lettura: 4 minuti)

La mostra Caere. Storie di dispersioni e di recuperi, attualmente allestita presso il Museo delle Antichità etrusche e italiche della Sapienza Università di Roma, rappresenta un caso esemplare di come la comunicazione museale possa farsi strumento di riflessione critica sulle pratiche illecite legate all’archeologia funeraria e sulla vulnerabilità dei contesti etruschi. La curatela scientifica, affidata a Laura Michetti con la collaborazione di Claudia Carlucci, Alessandro Conti e Rossella Zaccagnini, si distingue per l’equilibrio tra rigore accademico, consapevolezza storica e responsabilità civica.

Il nucleo tematico ruota attorno alla città etrusca di Caere, odierna Cerveteri, uno dei poli principali della produzione funeraria dell’Etruria meridionale, ma anche tra i territori maggiormente compromessi dalle attività di scavo clandestino a partire dagli anni ’60 del Novecento. I reperti esposti non sono solo testimonianze materiali della civiltà ceretana, ma veri e propri “documenti giudiziari” del traffico illecito di antichità, alcuni dei quali recuperati grazie alla sinergia operativa tra il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, la Guardia di Finanza e la Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del MiC.

Tra gli oggetti esposti spicca un cratere a calice in ceramica attica a figure rosse, firmato dal celebre Euphronios e datato intorno al 510 a.C., già parte delle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York e restituito all’Italia nel 2010. Il vaso, raffigurante il combattimento tra Eracle e Cicno, è stato identificato come proveniente da una sepoltura a tumulo nell’area di Cerveteri, scavata di frodo. Il suo rientro si inserisce in una complessa operazione di cooperazione giudiziaria internazionale che ha coinvolto procure italiane e statunitensi, culminata con una delle prime restituzioni volontarie di un museo di prestigio coinvolto nella circolazione di beni archeologici trafugati.

Accanto a questo, la mostra presenta una selezione di lastre in terracotta dipinta, presumibilmente pertinenti a decorazioni templari o a monumenti funerari, alcune delle quali recuperate in Svizzera nel 2016, altre sequestrate a Roma nel 2019 e riconosciute come provenienti da contesti ceretani sulla base di analisi archeometriche e confronti tipologici. Particolarmente significativa la cosiddetta “lastra del viaggiatore”, recentemente donata al Ministero della Cultura dalla Fondazione Rovati e oggi considerata un tassello rilevante per lo studio dell’iconografia etrusca del passaggio ultraterreno.

La mostra si caratterizza anche per l’integrazione di materiali di natura documentaria: fotografie d’archivio, perizie, mappe dei sequestri, e schede di catalogo redatte durante i procedimenti giudiziari. Questa dimensione archivistico-investigativa, lungi dal sovrapporsi all’apparato espositivo, ne rafforza l’impianto narrativo e consente al visitatore, in particolare al professionista del settore, di percepire la portata e le modalità con cui il traffico illecito opera, spesso in modo sistemico, e con una rete articolata di mediatori, collezionisti, restauratori compiacenti e musei stranieri.

Non si tratta, tuttavia, di una mostra “di denuncia” in senso sensazionalistico. Piuttosto, si propone come un dispositivo educativo, rivolto alla comunità scientifica, agli studenti di archeologia e ai cittadini consapevoli, capace di inquadrare il fenomeno della dispersione del patrimonio archeologico all’interno di un dibattito storico-giuridico più ampio. Il racconto delle dispersioni è bilanciato dalla narrazione dei recuperi: ogni restituzione viene presentata non solo come un atto riparativo, ma anche come occasione per ristabilire il nesso tra oggetto, contesto e comunità di riferimento.

La scelta di focalizzare l’attenzione su Caere non è casuale: questa città, con le sue necropoli monumentali e le sue sepolture principesche, è stata per decenni epicentro del saccheggio archeologico, ma anche campo privilegiato della ricerca scientifica, dagli scavi ottocenteschi della famiglia Regolini-Galassi fino alle missioni attuali dell’École Française de Rome e dell’Università di Roma. Il dialogo tra ciò che è stato irrimediabilmente perduto e ciò che è stato salvato costituisce il cuore problematico e, insieme, etico della mostra.

Caere. Storie di dispersioni e di recuperi è, in definitiva, un’esposizione necessaria. Non solo per ciò che espone, ma per il modo in cui lo espone. Perché rimette al centro del discorso museale il rapporto tra oggetto e contesto, tra diritto alla conoscenza e diritto alla tutela, tra storia materiale e responsabilità collettiva. E perché ci ricorda, ancora una volta, che l’archeologia è, prima di ogni altra cosa, una scienza del tempo e anche della restituzione.

Daniela Rizzo e Laura Michetti durante una visita guidata alla mostra Caere. Storie di dispersione e di recuperi.

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