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Inaugurata lo scorso 15 dicembre, la piccola ma significativa esposizione in Sala Urbana nasce grazie all’interesse e alla promozione del Comune di Bologna e del Comune di Faenza, in collaborazione con il Museo Carlo Zauli, diretto da Matteo Zauli, la Scuola Comunale di Musica “Giuseppe Sarti” e la Scuola Comunale di Disegno, Arti e Mestieri “Tommaso Minardi”. Questi importanti riferimenti culturali faentini sono stati investiti e fortemente danneggiati dalla prima ondata, 12-13 maggio, o dalla seconda, 16-17 maggio, o da entrambi gli eventi alluvionali che hanno colpito la Romagna nel 2023. IMMANENTE. L’arte di Faenza riplasmata dall’acqua non è solamente la rappresentazione della devastazione, che pure c’è stata e che ancora c’è, ma è l’invito a cogliere concettualmente, sull’esperienza fattuale faentina, la dirompenza come passaggio di materia, risemantizzazione e sfida creativa. Con la distanza del poi tutto potrebbe apparire logico, chiaro, persino ovvio, addirittura poetico, ma negli attimi dell’emergenza, nei momenti immediatamente successivi dei sopralluoghi, della conta dei superstiti e dei danni, e nelle settimane e nei mesi di incessante lavoro, questa installazione, che si è generata poco alla volta, è la dimostrazione che anche nell’arte, come in chimica, “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Lo ha spiegato, anche meglio di così, Matteo Zauli, figlio di Carlo, fondatore e direttore del museo dedicato all’artista faentino, in occasione della visita guidata del 14 gennaio.

«Sono stato invitato, insieme alla direttrice Eva Degl’Innnocenti, a curare questa installazione dedicata all’alluvione che ha travolto la città di Faenza nella notte del 16 maggio. Eravamo già sconvolti dall’altro alluvione, che si era verificato due settimane prima, e mi sentivo molto fortunato perché il museo è in centro a Faenza, mentre le zone alluvionate erano state quelle più vicine al Lamone. E mi chiedevo come il Museo Carlo Zauli avrebbe potuto aiutare, ad esempio alcuni artisti che avevano un piccolo borgo sulle sponde del fiume, il Vecchio Mulino San Martino. Mentre ci stavamo chiedendo come aiutarli e se continuare a fare i nostri eventi, come se nulla fosse, oppure fermarci un attimo, è arrivata la seconda ondata che ha travolto metà del centro storico, che è di molto sopra il livello del fiume. Una cosa che nessuno avrebbe potuto immaginarsi. Ricordo che ero a casa, che è più vicina al fiume rispetto al museo, e con la mia famiglia eravamo impegnati a tirar fuori dall’interrato, dove ho una specie di studio, tutti gli oggetti. Ad un certo punto è arrivato un messaggio WhatsApp, verso le 3:30, quando già avevamo messo in salvo la macchina, che l’acqua aveva travolto via della Croce e subito ho pensato alla cantina delle argille».

«Nelle fotografie la vediamo a una settimana circa dall’alluvione. Gli scatti sono di Cristina Bagnara, fotografa cervese che già aveva realizzato un reportage al museo tanti anni fa, e che abbiamo chiamato a rifotografarlo in questa occasione. Ero molto preoccupato perché la cantina era uno dei luoghi più vicini al nostro concetto di museo come conservazione della memoria, del lavoro e non solo delle opere di Carlo Zauli. Qui c’erano delle montagne di sacchi, tutte ben disposte ancora da mio padre negli anni ’80, con le argille rare che arrivavano da tutta Europa perché Zauli aveva compiuto una rivoluzione nella ceramica di Faenza: prima di lui tutti usavano la maiolica, l’argilla in uso fin dall’età neolitica, che si trova proprio sulle sponde del fiume e sui calanchi. I nostri calanchi sono rari e rappresentano una sorta di intatto fondale marino preistorico, l’argilla qui è buonissima ma si rompe. Quando Zauli ha cominciato a dedicarsi alla scultura ha smesso di usare il materiale del fiume faentino, un’argilla rarissima però che va bene per fare pottery, oggetti e vasellame, e andava a prenderne di più forti che arrivavano dal Regno Unito, dalla Germania e dalla Francia. È stato il secondo artista in Italia a introdurre il grès, che costava molto di più di trasporto che come materia prima, quindi ne prendeva in quantità industriali, stoccandole in questa cantina che era la memoria del suo lavoro dal punto di vista della ricerca tecnica. Tutto questo durante l’alluvione è stato travolto. Il rosso del soffitto è segno dell’acqua: arrivava a un metro circa sopra il livello della cantina ed è entrata, senza nessun ostacolo, dalle bocche di lupo costantemente aperte. La cosa che mi è più dispiaciuta è che qui non c’erano solo le argille rare, ma anche delle opere d’arte molto più preziose: nella stessa cantina, nella quale conservava le zolle, Zauli produceva delle opere che erano a loro proprio dedicate, all’incontro tra la natura, la terra e il lavoro dell’uomo, un po’ un simbolo della fusione e dell’armoniosità tra uomo e natura. Il campo arato, se ci pensate, non è natura pura perché è solcato dall’uomo che crea delle geometrie. Ecco, che queste geometrie materiche lui le ricreava in cantina attraverso opere geometriche formate da zolle. Oltre ai lavori di Carlo Zauli, ce ne erano cinque, c’era un’opera di un’artista molto importante, a cui quest’anno dedicheranno il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, Massimo Bartolini, in argilla cruda. Non le abbiamo più ritrovate naturalmente. E poi c’era un’opera rarissima del più grande scultore giapponese, Sueharu Fukami, che ha impiegato 12 anni a realizzare e a mandarci un lavoro in onore di mio padre. Purtroppo la scultura è caduta e si è scheggiata, un’opera fatta di dettagli, di spigoli, di perfezione tecnica, praticamente non esiste più».

«Quando siamo andati a cercare questi manufatti, era calato il livello della fanghiglia rossa, di questo colore perché da un parte c’erano le argille e dall’altra l’ossido di ferro, il colorante rosso per eccellenza che si trova in natura. Mio padre aveva stivato tonnellate di ossido di ferro perché a lui piaceva molto mettere in contrasto il tipico bianco-grigio Zauli con il mattone, con il tradizionalissimo cotto, ma, le argille tedesche che usava erano troppo chiare e aggiungeva l’ossido di ferro per raggiungere la tonalità desiderata. Con l’arrivo dell’acqua, l’ossido si è mescolato alle argille e al fango del fiume, e ha creato un brodo primordiale rosso che ha dato un colore uniforme a tutto quello che c’era nella cantina e che ancora troviamo in giro per il museo: dovete immaginarvi centinaia e centinaia di volontari che sono entrati, che hanno lavorato, e che sono usciti spargendo ovunque questo colore. Abbiamo trovato una delle Zolle più grandi in ceramica, un parallelepipedo che coabita con l’aspetto materico, una dialettica che Zauli esprime dalla fine degli anni ’50 agli anni ’90; un’opera in argilla nera tedesca, perfetta geometricamente, che vediamo così (rossa e mutilata, ndr). Abbiamo deciso di esporla, così com’è, come segno dell’alluvione e della trasformazione. La cosa positiva nel negativo è che situazioni come questa possono avvenire solo nell’arte e nella cultura, dove un’opera perduta comincia ad avere un’altra vita: è stata esposta al museo di Savona, ora è qui, chissà poi dove andrà. Stiamo reperendo fondi per restaurare i manufatti, questa per il momento abbiamo deciso di lasciarla così: sarebbe restaurabile, perché abbiamo recuperato praticamente tutti pezzi e altri dettagli che abbiamo al museo, ma è la testimonianza di ciò che è avvenuto».

Carlo Zauli, Zolla.

«Non vogliamo parlare solo di distruzione, certo è stato tremendo, però ci sono tante cose positive che sono avvenute. Mi pare anche di essere quasi blasfemo nei confronti di chi ha vissuto l’alluvione solo come una enorme tragedia: ci sono persone che hanno perso la casa, che non potranno più rientrare in quella casa, eccetera. Ma anche qui, i miracoli di lavorare nella cultura, nell’arte, in un luogo così: la devastazione accaduta ha fatto stringere attorno al museo una solidarietà che non credevo assolutamente potesse ottenere. Persone ed enti hanno donato sulla nostra piattaforma, in maniera privata e splendidamente eterogenea, più le persone che sono venute ad aiutarci in quella specie di cantiere fangoso che è stato il museo e che è ancora, nonostante ciò il 27 gennaio riapriremo. C’è una fotografia che lo racconta molto bene: dovete pensare Faenza, con le scuole chiuse e i ragazzi – devo stare attento perché non voglio sembrare indelicato – che fanno a gara per venirci ad aiutare. È stato qualcosa di meraviglioso. E sono emerse tantissime cose, tant’è che il museo si è trasformato in una specie di cantiere archeologico. Quando abbiamo aperto il Museo Carlo Zauli nel 2002, lo abbiamo fatto in un tempo molto ridotto: mio padre è morto il 14 gennaio, come oggi, e il 31 maggio abbiamo aperto. Abbiamo corso tantissimo, c’erano degli oggetti che abbiamo lasciato nelle otto cantine non visitabili, sperando che nel futuro arrivasse qualcuno, si pensa sempre allo stagista illuminato, a catalogarle. Tra queste cose c’erano 1300 stampi in gesso, modelli che non eravamo riusciti ancora a codificare e ad archiviare, e che rischiavano di andare perduti a causa del fango insinuatosi nel gesso. Con i ragazzi abbiamo creato delle squadre di volontari che hanno pulito uno a uno tutti i pezzi, che adesso abbiamo risistemato, fotografato e archiviato, sempre nelle stesse cantine, perché non abbiamo altri spazi, su delle scaffalature in ferro: se verrà un altro alluvione – spero mai – sono un po’ più protetti. C’è stato quindi un lavoro di archiviazione che è andato avanti tutta l’estate e che ancora non è finito ma, avendo partecipato e vinto alcuni bandi, ci sembra brutto continuare a rinunciare al pubblico».

«In questa installazione abbiamo voluto parlare anche di altre cose, non soltanto di quello che era successo a noi. Il museo ha una partnership fortissima con la Scuola Comunale di Musica “Giuseppe Sarti”, che prepara i giovani al conservatorio, ha 350 iscritti e produce una stagione musicale con tanti concerti. Il direttore di questa scuola, Donato D’Antonio, dirige un festival di musica contemporanea che ospitiamo al museo. La scuola aveva una sede storica, che purtroppo è stata dichiara inagibile un anno fa, e quindi si era trasferita in una meravigliosa sede quasi sull’argine del Lamone. Capite anche voi che cosa è capitato. Tra l’altro in questo immobile c’era la sede anche della Scuola Comunale di Disegno, Arti e Mestieri “Tommaso Minardi”, che dirigo, che è stata spostata lì proprio l’anno scorso da un luogo che non è stato minimamente toccato dall’alluvione. Il piano terra della nuova sede è stato totalmente sventrato. E lì c’era questo pianoforte (un Heitzmann & Sons prodotto alla fine dell’Ottocento, ndr) che è diventato il simbolo di quello che è successo alle istituzioni pubbliche della città di Faenza. È appartenuto a don Vincenzo Cimatti (Faenza 1879 – Tokyo 1965, ndr), un sacerdote salesiano missionario in Giappone, dov’è rimasto per tutta la sua vita e dove ha composto più di 950 opere: un patrimonio della nostra cultura in Giappone. Il pianoforte è tornato in Italia, alla sua morte, acquistato da un’artista che si chiamava Muky, poetessa e protagonista di uno dei salotti culturali di Faenza, scomparsa da poco, che l’ha donato alla città. E questo è il suo triste destino. Abbiamo deciso di non buttarlo, di tenerlo come testimonianza viva dell’impatto e della forza dell’acqua. I vasi di terracotta sono stati prodotti e rinvenuti nella Scuola di Disegno, Arti e Mestieri (fondata nel 1796, ndr), opera di uno dei vasai più bravi, Gino Geminiani».

«Il disastro che è avvenuto nella biblioteca comunale, montagne impressionanti di libri che sono state buttate via, è qui rappresentato da una installazione con i nostri libri. Come Museo Carlo Zauli ne abbiamo buttati via 4-500, erano il nostro archivio per il futuro, stivato nelle cantine. Questo ad esempio è un libro molto raro, pubblicato dall’Università di Napoli negli anni ’80, per fortuna ne possedevano tante copie, ora ne sono rimaste 15 in tutto. Questo invece è un catalogo delle mostre giapponesi del 2007-08. Sono libri che hanno una valenza di oggetti del ricordo di questo alluvione e di quello che è accaduto anche alla nostra biblioteca».

«Curiosamente abbiamo fatto anche dei ritrovamenti misteriosi, un po’ com’è successo per i 1300 stampi, di tantissime cose che non sapevamo di avere: abbiamo voluto esporre questa piccola cassa, emersa dalle acque, di proprietà di David Casini che né lui e né io sapevamo ci fosse. Casini è un artista bolognese che è stato 3 anni in residenza a Faenza in un appartamento del Museo Carlo Zauli dove ha prodotto alcune delle sue opere storiche. Abbiamo salvato questa cassa, da una catasta di oggetti pieni di fango ammucchiati dai volontari, e nessuno l’ha ancora aperta: non sappiamo se dentro è vuota, se c’è un piccolo disegno o una piccola scultura; lo vedremo alla fine di questa mostra quando faremo il finissage e scopriremo insieme a David cosa c’è all’interno. E questo è il significato un po’ della vita dopo l’alluvione, cioè di qualcosa che viene generato anche dall’alluvione, e che è anche il senso dell’opera con cui termina la visita e che merita di essere raccontata».

Wei Bao, Trail of flow (courtesy: MIC – Museo Internazionale della Ceramica in Faenza).

«A Faenza si tiene, da prima della Guerra, il concorso più importante a livello mondiale della ceramica, il “Premio Faenza”. Zauli stesso lo aveva vinto tre volte negli anni ’50 e dopo questo riconoscimento aveva capito che poteva avere una carriera artistica. All’ultima edizione sono arrivate 600 iscrizioni da tutto il mondo, il meglio della ceramica artistica, e il vincitore del premio junior è stato Wei Bao, un artista di Jingdezhen, la capitale mondiale della porcellana gemellata con Faenza, bravissimo anche al tornio, che è una tecnica diventata in Italia ormai molto molto rara. Ha vinto questo premio con un’opera simile a quella in mostra: la circolarità, motivo comune nella sua arte, è simbolo della vita, della ciclicità della natura che non ha mai fine. Wei Bao era venuto, pensando di realizzare i suoi lavori utilizzando l’argilla bianca, la terraglia, e l’argilla rossa, la maiolica, terre tipiche della città di Faenza e dopo due giorni è arrivato l’alluvione. Persona di grande sensibilità, ha visitato il museo e se n’è innamorato, anche in quelle condizioni. Abbiamo cominciato a lavorare insieme e alla fine ho curato io la sua mostra al MIC – Museo Internazionale della Ceramica in Faenza. È stato il primo artista a prendere le argille dai sacchi di carta degli anni ’50 della cantina e a inserire questo materiale alluvionato all’interno di una sua scultura, è stato il primo a capire che quell’impasto, creatosi nella fanghiglia, poteva essere utilizzato. Ho acquistato tutti i sacchi trasparenti disponibili e abbiamo iniziato a insacchettare il materiale che oggi è impiegato da altri artisti che sono attratti dalla riutilizzo di qualcosa generato da un evento tragico. Non è un materiale molto plastico, c’è un po’ da faticare, ma Wei Bao e Michele Guido l’hanno usato, un artista importante è venuto a prenderselo, David Casini ne ha portati via 10 sacchi per i suoi studenti dell’Accademia. Sta diventando un nuovo filone. Ecco, secondo me, il miracolo dell’arte: in nessun altro campo si avrebbe una metamorfosi e una nuova genesi in un tempo, tra l’altro, così breve».

Matteo Zauli.

«Riapriamo il 27 gennaio e guardiamo al futuro. Certo, quando entriamo in quello spazio, non è più la stessa cosa, c’è qualcosa che non si può cancellare, però con il tempo si armonizzerà con tutte le esperienze nuove che faremo. Ci tengo a dire che questa riapertura è merito di tutte le donazioni, di privati e di aziende private, che sono arrivate. Per questo sono così commosso, emotivamente è un momento straordinario, che sembra quasi una bestemmia, però è così. E non è successo solo a me: le scuole di musica e quella di disegno possono pianificare addirittura un miglioramento della struttura grazie alle donazioni».

Il prossimo e ultimo appuntamento per ascoltare Matteo Zauli a Bologna è per domenica 28 gennaio alle ore 11:00. Per partecipare alla visita guidata, che è compresa nel biglietto di ingresso al Museo, non è necessaria la prenotazione.

IMMANENTE. L’arte di Faenza riplasmata dall’acqua al Museo delle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna fino al 4 febbraio 2024. Aperto il martedì e il giovedì con orario 14:00-19:00; il mercoledì e il venerdì con orario continuato 10:00-19:00; il sabato, la domenica e i festivi 10:00-18:30. Chiuso i lunedì non festivi.

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