Oro, bronzo e il rosso-nero, ma non è calcio, anzi sì. Breve storia della pesca al corallo sfiorando l’archeosub
L’uomo è sempre stato attratto dalle profondità marine per il desiderio inconscio di ritornare nell’elemento che ha dato origine alla vita. Immergersi nel profondo blu è come tornare nel grembo materno.
(J. Mayol)
Il fascino del mare e delle sue profondità non conosce crisi, rimane intatto, salvo in quelle narrazioni che, purtroppo, essendo a volte faziose e poco rispettose, stravolgono il senso comune, seguendo rivoli poco interessanti, calpestando la dimensione poetica, la media intelligenza e perfino scomodando la dimensione scientifica, divenendo perciò inutili a nutrire lo spirito e a migliorare la nostra conoscenza.
Quanto e come ne hanno scritto gli antichi greci sul regno di Poseidone fratello di Zeus: bastano e avanzano le imprese dell’Odissea. E poi i romani, con l’influenza del “mare nostrum”. Prima di loro i fenici, che con le loro rotte commerciali colonizzarono il mediterraneo meridionale. Navigando verso nord, si incontrano le popolazioni scandinave, i vichinghi, che con le drekar attraversarono le acque gelide dei mari polari, si dice fino alle Americhe, molto prima di Colombo. E ancora i vari popoli del mare, quelli che con le canoe (piroghe) pare coprissero distanze smisurate dell’oceano Pacifico, più di duemila anni fa. Su quest’ultimo aspetto mancano tuttavia fonti scritte, perché queste popolazioni non tramandavano il loro sapere attraverso la scrittura, per cui le poche attestazioni riguardano graffiti rinvenuti nelle isole Hawaii.
Quanto appena accennato è giustappunto la superficie del mare. Per quanto riguarda la sua profondità, o meglio i tentativi di esplorare di più la dimensione complessa e misteriosa, vi sono le fonti greche, assire e romane. Ne trattano infatti Erodoto, Aristotele, Ovidio e Plinio. Ben noti, spesso raffigurati in bassorilievi e mosaici, sono infatti gli urinatores, veri e propri palombari ante litteram, impiegati anche in addestramenti e azioni militari, come attestato in Vegezio nel De re militari. Tuttavia si dovranno attendere secoli per addivenire a figure altamente specializzate nell’affrontare il mare, laddove l’esplorazione degli abissi è divenuta una necessità in coincidenza con l’evoluzione della tecnica e con l’invenzione di strumentazioni idonee, in grado di consentire una più lunga permanenza sotto la superficie: serbatoi d’aria, erogatori, scafandri. Anticipatori di queste sfide umane sono certamente i romanzi ottocenteschi di Jules Verne: affascinanti e insieme proiettati in una dimensione futuribile che vede nel progresso scientifico, in particolare nelle esplorazioni sottomarine, esperienze non meno strabilianti di quelle spaziali. È cruciale tuttavia distinguere i generi: un romanzo, per quanto stimolante, non è un saggio scientifico, facciamocene una ragione.
In mare si svolgono molteplici attività, la principale e la più antica è certamente la pesca, praticata in innumerevoli modalità, variabili secondo la latitudine, le necessità umane, la geografia e la profondità. Pensiamo per esempio alle ama giapponesi, la cui origine si fa risalire a più di mille anni fa. Queste donne straordinarie erano dedite alla pesca in apnea di varie specie ittiche, ma più recentemente si sono concentrate sulle più redditizie perle. Un’attività tradizionale, peculiare, tramandata di generazione in generazione, tanto da essere candidata ad essere iscritta nella lista del Patrimonio immateriale dell’UNESCO.

Per ritornare al mare che circonda la nostra Penisola, più in generale al bacino del Mediterraneo, un’attività del tutto particolare è, senza ombra di dubbio, la raccolta del corallo, tema centrale di questo articolo. Sin dalla Protostoria, questa specifica occupazione si praticava a bordo di apposite imbarcazioni, denominate in seguito coralline, e con apposite reti e strumenti come ad esempio la croce di Sant’Andrea che, costituita da due bracci in legno incrociati e zavorrati da un peso, a cui erano applicati frammenti di rete, era assicurata con una cima a una barca, calata in acqua e trascinata sul fondo affinché intercettasse il corallo, che vi rimaneva impigliato. La pesca del corallo rosso è un’attività antica, collegata alla realizzazione di preziosi manufatti, molto apprezzati dai romani, come riportato da Ovidio; anche i Celti lo impiegavano per realizzare monili, oggetti decorativi e perfino per ornare i finimenti dei cavalli. La pesca, l’utilizzo e la lavorazione del corallo rosso (è un animale non una pianta o un’alga, sic!) sono note e riconducibili alla tradizioni algherese, sanmargheritese-tabarchina, trapanese e torrese. A Torre del Greco (NA), gli abitanti sono noti essi stessi come “corallini”: nel passato, questo tipo di attività ha avuto uno sviluppo fiorente, anche con flotte dedicate considerevoli che, nella cittadina campana, alla fine del XIX secolo, contavano centinaia di imbarcazioni dedite a questa specifica attività.
Il corallo è raro e pregiato in quanto difficile da reperire e da raccogliere, tenuto conto che ci vogliono decenni prima che si rigeneri e ramifichi al meglio. È documentato l’impiego del corallo rosso nell’arte per vari aspetti, a partire dalla sua unicità, dalla valenza simbolica, fino alla devozione religiosa. Il contenuto simbolico raccoglie e coagula varie storie e tradizioni, origine e provenienza, che ne condividono le qualità apotropaiche (perfino dalla Cina.) La religione cristiana, sin dal Medioevo, lo ha associato alla figura di Cristo bambino, utilizzandolo altresì, nei periodi del Rinascimento e del Barocco per ornare elementi architettonici chiesastici e pale d’altare, nonché manufatti come crocifissi e rosari.
Al di là del suo impiego, che nel corso degli anni e fino ai giorni nostri ha riguardato l’alta gioielleria, è interessante soffermarsi altresì sull’evoluzione delle modalità di prelievo dal fondo marino. Il metodo dello strascico dalle imbarcazioni, svolto anche con appositi ramponi metallici, è stato definitivamente abbandonato ed anche espressamente vietato, proprio per i danni che procurava all’habitat sottomarino. Dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso e fino a oggi, l’oro rosso viene pescato in modo selettivo dai cosiddetti “corallari”.
Si tratta di subacquei che, avendo maturato solide esperienze militari, in seno ai reparti di palombari-incursori e/o sportive, legate principalmente alla pesca subacquea e all’apnea, hanno potuto affinare le tecniche di immersione che, nel corso degli anni, in relazione alla raccolta del corallo, hanno comportato l’aumento della profondità delle quote di esercizio. Un’attività molto rischiosa e usurante. L’Italia ha un primato anche in questo ambito, sebbene siano noti nel mondo della subacquea sommozzatori arabi, catalani e provenzali. Le attrezzature utilizzate storicamente dai corallari sono sui generis, nel senso che derivano da modifiche “artigianali” di quanto disponibile, proprio per consentire l’immersione in alto fondale: bombole sovradimensionate, caricate con aria compressa e miscele (elio, poi trimix), erogatori a “frusta lunga”, evoluzione di quelli monostadio, mute di gomma spesse e aderenti, tagliate in più pezzi e con indumenti sottomuta dello stesso materiale per contrastare le basse temperature. In seguito, questi equipaggiamenti sono stati sostituiti, grazie all’evoluzione tecnologica di materiali e strumentazioni: il “miracoloso” neoprene, appositamente tagliato nello spessore e conformabile (sebbene esistenti, le mute stagne non erano molto diffuse in quanto impiegate principalmente in ambito militare sin dai primi anni Sessanta, ma non preferite dai corallari ortodossi), profondimetri, tabelle per decompressione, o decompressimetro da polso, orologio meccanico a tenuta stagna con indici luminescenti, assetto studiato con vari pesi di piombo assicurabili alla cintura, pinne corte, maschere con riduttori interni.
Gente rustica, schiva e verace: questi i tratti umani comuni e predominanti dei corallari d’antan, ne ho conosciuti diversi. Legati se non gelosi dei loro posti, dei loro attrezzi (la piccozza), dei riti scaramantici, ma con un cuore grande, come sono di solito i veri lupi di mare, forgiati dalle difficoltà, abituati a lavorare in situazioni estreme, a condividere spazi di bordo ristretti e soprattutto a misurarsi con la grande distesa blu. La loro azione è circondata dal buio, isolati, raramente in coppia e, nel caso, in modalità alternata, sotto il fascio di luce artificiale delle torce subacquee: bisogna fare in fretta a frantumare la rocce e a mettere nel retino quanti più rametti e poi su, lungo la cima assicurata alla barca di appoggio, spesso naviglio di pescatori. Un quarto d’ora di immersione a certe profondità comporta ore e ore di decompressione, ovvero permanere sott’acqua in fase di risalita secondo calcoli precisi, sostando, per scongiurare il pericolo di embolia. Non è consigliabile effettuare pertanto più di un’immersione giornaliera.
Il mare dà, il mare toglie: questa frase l’ho sentita pronunciare molte volte, declinata in vari dialetti, campano e siciliano in primis. Di corallari ne sono rimasti davvero pochi. L’attività di prelievo è disciplinata da normative regionali, nazionali inquadrati nel “Piano nazionale di gestione per la raccolta del corallo rosso”, adottato con decreto dal Mipaaf e dalla normativa della Commissione Generale della Pesca nel Mediterraneo (GFCM).
La cornice normativa richiamata tiene conto di vari aspetti:
– modalità di pesca e raccolta nelle aree marittime;
– autorizzazioni concesse dall’ente regionale soggette a pagamento di tassa annuale;
– restrizioni connesse alla quantità prelevabili in relazione al contesto;
– le profondità di esercizio della pratica mai inferiori a 50 mt e ancor più restrittive in altre zone (cd banchi);
– le modalità di imbarco/sbarco e trasporto del corallo solo in porti designati.
Il controllo preventivo e il contrasto in questo ambito sono principalmente devoluti al Corpo delle Capitanerie di Porto, che si prefigge di far rispettare la normativa di settore che vuole mantenere la sostenibilità della risorsa garantendo e tutelando nel contempo l’esistenza nel contesto biologico-marino.
Sono abbastanza note le zone dove, storicamente, sono tuttora presenti più o meno floridi banchi di corallo rosso: Liguria, Toscana, Corsica, Sardegna (riviera del corallo di Alghero) Campania, Calabria, Sicilia e poi Grecia e Tunisia. Meno frequenti e rinvenibili a profondità ancora maggiori rispetto al corallo rosso le colonie di corallo nero, presenti nei fondali rocciosi del sud della Calabria, alle Tremiti, Sardegna ed Egadi. Questo tipo di corallo è considerato meno pregiato e, di fatto, poco utilizzato, nella tradizione di pesca/raccolta e lavorazione tipica del nostro paese.
Ci sarebbe tanto da raccontare sulle vicende mirabolanti dei corallari, soprattutto sulle imprese della metà degli anni Settanta, al largo delle coste sicule e del canale omonimo: gli scogli delle Formiche, fuori Porticello (PA), ma più di tutti il banco di Skerki, sito in acque internazionali, italiane e tunisine.
Località conosciute per varie ragioni, comprese quelle legate alla presenza di reperti archeologici sommersi.
Nei pressi del banco di Skerki, tra le sventagliate di mitre delle motovedette tunisine che braccavano i pescherecci mazzaresi e trapanesi, sarebbe stato rinvenuto il celeberrimo Satiro danzante. Le acque insidiose, antistanti Porticello, sono state teatro, nel lontano passato, di numerosi naufragi, motivo per cui i fondali sono caratterizzati dalla presenza di relitti che recavano vasellame in quantità, soprattutto anfore di origine punica e romana. Oggi se ne parla, non a caso e diffusamente nella cronaca per l’affondamento dello yacht Bayesian, avvenuto l’estate scorsa, in cui sono decedute sette persone.
Non indugeremo oltre le caratteristiche di questi ambienti: procuratevi le mappe o controllate i GPS, giusto per essere al passo coi tempi. Si può comunque definirli idro spazi difficili per chi vi si deve immergere, anche solo per un tuffo ricreativo: correnti, conformazione del fondo, difficoltà di approdo. Figuriamoci poi se vi deve operare e svolgere attività specifiche, di recupero, seppur avvalendosi delle più moderne e sofisticate strumentazioni e tecnologie rispetto a quelle di quasi cinquant’anni fa: è materia da veri esperti o forse da inveterati quanto spregiudicati avventurieri e temerari, ne esistono ancora? Azzarderei nel dire di no, semmai siano esistiti in questo ambito, probabilmente si sono estinti come i veri gentiluomini, ancorché ladri alla maniera di Arsenio Lupin: quello “vero”, di Maurice Leblanc immortalato anche nello sceneggiato televisivo degli anni Settanta, interpretato da un impareggiabile Georges Descrières.
Nessuno la faceva a Lupin tanto meno lo sfortunato Ispettore Guerchard, che non riusciva mai a catturarlo. Grande esperto d’arte il ladro gentiluomo, a cui non era certo possibile propinare oggetti falsi. Come dire, non si può entrare impunemente nella tana del lupo [di mare?], passatemi il calembour. In un gioco di rovesciamento di ruoli, se mi è consentito dire, non si può perciò confondere o peggio essere indotti a ritenere una pietruzza insulsa il Corallium rubrum, ovvero sostenere che il bronzo sia equiparabile all’oro, solo perché ne condivide il palco olimpico, passatemi la metafora.
Incrociando quindi l’archeologia, in primis quella subacquea, fondata da Nino Lamboglia (1912-1977), che non sapeva nemmeno nuotare (sic!), la disciplina delle immersioni nelle sue varie sfaccettature e il metodo scientifico, siamo in grado di comprendere e di districarci tra le complessità, spiegarle e risolverle. Non è perciò tollerabile, in definitiva, mescolare menzogna con la verità che, ahinoi, tende talvolta a sbiadire se non proprio oscurare le agognate e giuste trasparenze, soprattutto quelle pertinenti alla dimensione umana.
Buon vento dunque, e non solo, ai corallari autentici ed onesti, a quelli che sono andati avanti, peraltro recentemente vi è stato un evento luttuoso che ha riguardato un veterano di questa attività. Speriamo dunque di respirare una brezza che rechi, a beneficio di tutti, il “fresco profumo di libertà”.

Columnist – Cultural Heritage Expert

