La circolazione di beni culturali di origine illecita attraverso acquirenti in buona fede (2): la risposta delle Convenzioni UNESCO del 1970 e UNIDROIT del 1995

Una delle questioni più critiche trattate dalla Convenzione UNESCO del 1970 riguarda la sorte dei beni culturali di provenienza illecita venduti, mediante titolo idoneo, ad acquirenti in buona fede.

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Il fenomeno della circolazione e del commercio di oggetti d’arte di origine illecita assume un aspetto particolarmente grave nel caso in cui la vendita venga volutamente effettuata nel territorio di uno Stato che tutela l’acquirente in buona fede e si dimostra riluttante ad effettuare controlli sul mercato dell’arte. Tali giurisdizioni, infatti, consentono agli oggetti d’arte di cui sopra di ottenere un titolo idoneo per circolare liberamente, pur essendo stati in precedenza sottratti e trafficati illecitamente.

Un primo tentativo concreto di arginare il problema in questione è stato effettuato tramite l’elaborazione dell’articolo 7 (b) (ii) della Convenzione UNESCO del 1970, ai sensi del quale è previsto l’obbligo di recuperare e restituire, su richiesta dello Stato d’origine, il bene culturale rubato e importato dopo l’entrata in vigore della Convenzione, a condizione che lo Stato richiedente versi un equo indennizzo all’acquirente in buona fede o alla persona che detiene legalmente la proprietà di tale bene.          

All’azione di restituzione si affiancano le previsioni di cui all’articolo 13 (c), il quale vincola gli Stati contraenti a consentire il ricorso a un’azione di rivendicazione dei beni culturali perduti o rubati, che può essere esercitata dal legittimo proprietario o in suo nome. Tuttavia, poiché le norme della Convenzione UNESCO non sono direttamente applicabili all’interno degli ordinamenti degli Stati parte (in quanto la loro efficacia è subordinata all’adozione di atti interni di esecuzione che hanno lo scopo di completarne e integrarne il contenuto), l’articolo 13 (c) trova applicazione soltanto in conformità all’ordinamento interno di ogni Stato contraente.    

A seguito di un’attenta analisi, l’articolo 7 (b) (ii) e l’articolo 13 (c) risultano norme assai controverse. Anzitutto, in applicazione delle norme della Convenzione, il traffico di beni culturali può essere considerato allo stesso tempo lecito e illecito, in base all’ordinamento giuridico interno dello Stato di origine o dello Stato importatore del bene culturale. Difatti, il meccanismo di restituzione previsto dall’articolo 7 (b) (ii), così come l’azione di rivendicazione di cui all’articolo 13 (c), possono essere ostacolati da determinate situazioni giuridiche riconosciute nell’ordinamento dello Stato di destinazione del bene culturale, come l’esistenza del diritto di proprietà sul bene, validamente costituito in forza del possesso in buona fede e del titolo astrattamente idoneo. I meccanismi di cui agli articoli 7 (b) (ii) e 13 (c), dunque, hanno un ambito di applicazione molto limitato e non assicurano il successo con riguardo alla restituzione del bene, specialmente quando il diritto interno applicabile alla controversia protegge l’acquirente di buona fede in modo pressocché assoluto.          

A queste criticità, si aggiungono i problemi relativi all’incertezza nella determinazione dell’esatto contenuto dell’onere della prova in capo allo Stato richiedente, dei criteri e delle modalità di computo dell’indennizzo e del rapporto tra azione di restituzione e azione di rivendicazione ordinaria. Inoltre, la Convenzione presenta un’impostazione tipicamente interstatale, che non consente alla persona fisica o giuridica che ha subito lo spossessamento del bene culturale, di cui era legittimamente proprietario, di agire direttamente per il suo recupero. Difatti, l’unico mezzo per ottenere la restituzione dei beni culturali illecitamente esportati previsto dalla Convenzione è il ricorso alle vie diplomatiche.

In ogni caso, la Convenzione propone alcuni importanti correttivi, come l’obbligo, per gli Stati contraenti, di impedire i trasferimenti di proprietà dei beni culturali con tutti i mezzi appropriati, se diretti a favorire l’importazione o l’esportazione illecite di tali beni – articolo 13 (a) – e di riconoscere il diritto imprescrittibile di ciascuno Stato contraente a classificare e dichiarare inalienabili determinati beni culturali – articolo 13 (b).

Dal momento che le recenti evoluzioni del traffico di beni culturali hanno condotto a nuove sfide e necessitano di nuovi rimedi nella lotta a tale fenomeno e poiché, a questo proposito, negli ultimi anni, parte della dottrina ha ritenuto che la Convenzione del 1970 sia ormai uno strumento giuridico obsoleto, gli Stati parte della Convenzione si sono impegnati a rafforzarne l’attuazione e a garantirne l’efficace contrasto del traffico di beni culturali attraverso l’adozione delle Operational Guidelines for the implementation of the 1970 Convention on the Means of Prohibiting and Preventing the Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural Property, da parte della terza assemblea degli Stati contraenti, che ebbe luogo a Parigi tra il 18 e il 20 maggio 2015.

In merito all’applicazione dell’articolo 7 (b) (ii), le linee guida affermano che, nelle controversie aventi a oggetto la proprietà dei beni culturali che implicano la corresponsione di un equo indennizzo all’acquirente in buona fede o alla persona che ha un valido titolo di proprietà sul bene, gli Stati sono tenuti ad applicare il criterio della due diligence, al fine di valutare la buona fede dell’acquirente e la validità del titolo. Tale criterio, di fatto codificato già nell’articolo 4 (1) della Convenzione UNIDROIT del 1995, presuppone che il possessore di un bene culturale rubato, qualora fosse tenuto a restituirlo, avrebbe diritto, al momento della sua restituzione, al pagamento di un equo e ragionevole risarcimento, a condizione che il possessore non sapesse, né avrebbe dovuto ragionevolmente sapere, che il bene era stato rubato e possa dimostrare di aver esercitato la dovuta diligenza al momento dell’acquisto del bene.

In definitiva, dunque, con la Convenzione UNIDROIT e con le linee guida del 2015 si è consolidato, nell’ambito delle convenzioni internazionali, il fondamentale principio che impone al possessore di un bene culturale rubato oppure di un bene illecitamente scavato o lecitamente scavato, ma di cui è illegittima l’appropriazione in conformità della legge dello Stato in cui tali scavi sono stati effettuati, di restituirlo, indipendentemente dal fatto che il possessore abbia acquisito il bene in buona fede.

Tale principio garantisce una migliore protezione al proprietario spossessato, al quale risulta sufficiente fornire la prova del furto per far valere il proprio diritto a ottenere la restituzione del bene, e sancisce il riconoscimento della regola del nemo dat quod non habet, tipica degli ordinamenti di common law, secondo cui l’acquisto di un bene posseduto da un soggetto che non ha alcun diritto di proprietà su di esso nega all’acquirente qualsiasi titolo di proprietà.

Con l’entrata in vigore della Convenzione UNIDROIT, nell’ordinamento giuridico internazionale sono vigenti norme giuridiche self-executing (e quindi direttamente applicabili nei rapporti tra gli Stati contraenti) che hanno dato nuova linfa alla disciplina della circolazione internazionale dei beni culturali, in deroga alle regole privatistiche tradizionali poste a tutela dell’acquirente in buona fede previste dai sistemi giuridici di civil law.

Una delle novità principali della Convenzione UNIROIT è rappresentata dalla regola per cui qualsiasi soggetto privato che rivendichi la proprietà di un bene culturale rubato o illecitamente esportato può avviare un’azione finalizzata al recupero del bene senza l’intervento dello Stato. La norma si pone l’obiettivo di consentire la restituzione o il ritorno dei beni culturali anche quando tale pretesa non derivi esclusivamente dall’applicazione delle disposizioni di diritto pubblico presenti negli ordinamenti nazionali.

Per ciò che concerne la quantificazione dell’indennizzo spettante al possessore che dimostra di aver agito con la dovuta diligenza (due diligence) in occasione dell’acquisto, la Convenzione non stabilisce criteri specifici ed esaustivi in base ai quali effettuare la valutazione, ma, ai sensi dell’articolo 4 (4), delinea alcuni criteri oggettivi e illustrativi che possono essere considerati allo scopo di determinare se il possessore di un bene culturale ha agito con la dovuta diligenza in sede di acquisizione del bene. Tra questi emergono la qualità delle parti, il prezzo pagato, la consultazione da parte del possessore di ogni registro ragionevolmente accessibile di beni culturali rubati ed ogni altra informazione e documentazione pertinenti che esso avrebbe ragionevolmente potuto ottenere, nonché la consultazione di organismi ai quali poteva avere accesso o ogni altra operazione che una persona ragionevole avrebbe effettuato nelle stesse circostanze.

Tali disposizioni risultano di centrale importanza, poiché incentivano il controllo della provenienza degli oggetti d’arte e incoraggiano il miglioramento sostanziale delle prassi seguite dai soggetti coinvolti nel mercato dell’arte, aumentando la loro responsabilità nelle procedure di acquisto dei beni culturali.

La Convenzione UNIDROIT è stata criticata per il fatto che essa ha creato notevoli ostacoli alle procedure di acquisto che vengono svolte nel mercato dell’arte, in particolare per l’eccessiva onerosità dei requisiti che l’acquirente di un oggetto d’arte deve soddisfare per dimostrare di aver agito secondo dovuta diligenza e, di conseguenza, ottenere l’indennizzo che gli spetterebbe nel caso in cui fosse necessaria la restituzione del bene. Tuttavia, tali aspetti così aspramente contestati coincidono anche con gli effetti che il testo convenzionale si è prefissato di raggiungere, dal momento che quest’ultimo pone le proprie basi sul fondamentale principio secondo cui la regolamentazione e la limitazione della domanda siano necessarie per contrastare il commercio illecito di beni culturali.

L’efficacia della Convenzione deve essere valutata non soltanto in relazione all’incremento del numero di azioni intraprese per il recupero di beni culturali, ma in particolar modo nel mutamento delle prassi diffuse nel mercato dell’arte, in favore di un maggior controllo della provenienza degli oggetti in circolazione.

Tuttavia, questa inversione di tendenza riscontra tuttora notevoli problemi. Alcuni Stati risultano ancora restii ad accettare le norme convenzionali in materia di restituzione e ritorno dei beni culturali. Difatti, sia la Convenzione UNIDROIT sia la Convenzione UNESCO devono far fronte a problemi radicati che incidono nella loro ratifica e diffusione all’interno della comunità internazionale, come l’indifferenza politica – che spesso è riconducibile a una scarsa conoscenza del problema del traffico di beni culturali e dei suoi aspetti criminali ed economici – e la pressione esercitata dal mercato dell’arte – i cui interessi risultano contrastanti rispetto alle norme elaborate dalla Convenzione UNIDROIT, che affrontano la delicata questione della provenienza degli oggetti d’arte.

Al di là dell’applicazione delle norme convenzionali da parte degli Stati contraenti, i princìpi espressi dalla Convenzione UNIDROIT, con particolar riguardo alla nozione di due diligence, rappresentano già un punto di riferimento concreto e autentico nella prassi internazionale della restituzione e del ritorno dei beni culturali, poiché sono stati adottati o riconosciuti dalla giurisprudenza e introdotti nella legislazione nazionale degli Stati che non sono ancora parti contraenti della Convenzione. Questo processo, ad esempio, si è verificato in Svizzera, dove nel 2003 sono state introdotte disposizioni sul dovere di diligenza nel trasferimento di proprietà di beni culturali – articolo 16, Legge federale sul trasferimento internazionale dei beni culturali (LTBC) – e nei Paesi Bassi, dove è in vigore l’articolo 3 (87) del Codice civile olandese sull’osservanza della necessaria diligenza nell’acquisizione di un bene culturale, ossia due Stati che, principalmente a causa delle resistenze provenienti dal mercato dell’arte, ad oggi hanno firmato la Convenzione, ma non l’hanno ancora ratificata.     

Particolarmente simbolico è il caso L. v Chambre d’accusation de Genève, deciso dal Tribunale federale svizzero nel 1997, il quale costituisce uno dei primi esempi che implicarono l’applicazione dei princìpi della Convenzione UNIDROIT. Il caso aveva ad oggetto il furto di un dipinto da un castello francese. Il Tribunale federale confermò l’ordine di restituzione emesso dal Tribunal de Grande Instance di Grasse svizzero e dichiarò che il possessore del bene non aveva fornito le prove sufficienti che avrebbero potuto dimostrare che egli avesse adottato tutte le precauzioni necessarie prima di acquistare il dipinto. Il Tribunale ha fondato la sua decisione facendo riferimento sia alla Convenzione UNESCO sia alla Convenzione UNIDROIT – in particolare citando gli articoli 3 (1), 4, 5 (1), e 9 – sottolineando che le norme in esse contenute nascono da princìpi fondamentali comuni ed esprimono concretamente l’imperativa necessità di contrastare in modo efficiente il traffico internazionale di beni culturali, consentendo allo stesso tempo di tutelare i legittimi interessi del possessore in buona fede.

Per questi motivi, un’analisi esaustiva dell’efficacia della Convenzione UNIDROIT non deve basarsi semplicemente sul numero di Stati che l’hanno ratificata, poiché il modo in cui la Convenzione ha influenzato la prassi giuridica internazionale è multiforme. A questo proposito, la valutazione della Convenzione UNIDROIT difficilmente potrebbe essere effettuata senza considerare i suoi legami di fondo con la Convenzione UNESCO e la complementarità che sta alla base di tali strumenti giuridici, dal momento che molte previsioni normative della Convenzione UNIDROIT si limitano ad ampliare la disciplina di alcune norme contenute nella Convenzione UNESCO e a porre rimedio alle sue questioni maggiormente problematiche, garantendo di fatto una più ampia protezione dei beni culturali. Entrambe le Convenzioni in oggetto, oltre a trarre giovamento dal numero crescente di ratifiche da parte degli Stati della comunità internazionale, hanno avviato un processo evolutivo che ha condotto alla redazione e revisione di numerose leggi nazionali in materia di tutela dei beni culturali, che dimostra la crescente consapevolezza politica in merito ai pericoli che minacciano il patrimonio culturale e la chiara importanza attribuita alla sua protezione.

Questa tendenza, da una parte, pone una solida base per il dialogo tra gli Stati fonte e gli Stati mercato, dall’altra, ha creato i presupposti per lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte dell’opinione pubblica, la quale, attraverso la diffusione mediatica dei casi di traffico di beni culturali, è venuta a conoscenza dei danni inflitti al patrimonio culturale.

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