Silvio Raffiotta. Un uomo di Legge e di Cultura 

(Tempo di lettura: 18 minuti)
Silvio Raffiotta nel ritratto di Luis Sinco, LA Times
Con profondo cordoglio ricordiamo Silvio Raffiotta, magistrato siciliano di straordinaria integrità e rigore, scomparso il 24 maggio 2025 dopo una vita interamente dedicata alla giustizia e alla tutela del patrimonio culturale.

Originario della provincia di Enna, è stato protagonista indiscusso nella lotta contro il traffico illecito di beni culturali, un fenomeno che per anni ha significativamente depredato — e che purtroppo ancora deturpa — i siti archeologici della Sicilia. Non era solo un uomo di legge, ma anche un appassionato cultore della storia e della giustizia in ambito culturale: egli ha saputo coniugare il rigore giuridico con l’amore per l’archeologia, e per Morgantina in particolare, offrendo un esempio raro e luminoso di dedizione civica.

Il suo nome resterà indissolubilmente legato all’antica città nei pressi di Aidone (Enna), al contrasto del saccheggio di reperti archeologici e alla loro restituzione, nella lotta divenuta simbolo di una nuova coscienza culturale e giuridica.

Vogliamo ricordare gli episodi più salienti della sua attività investigativa in relazione col contesto storico e archeologico di Morgantina, con un contributo di Antonella Privitera.

Il capitolo “Morgantina” nella c.d. Grande Razzia è annoverato al primo posto per gli incassi fruttati ai trafficanti di antichità, in rapporto al numero relativamente esiguo di oggetti interessati dal saccheggio. Tuttavia vanta anche un altro primato, perché è dalla Procura di Enna che, con l’attività investigativa del magistrato Silvio Raffiotta, è stata turbata per la prima volta in Italia la filiera del traffico illecito di antichità, di carattere transazionale.

Questo compendio riassume le oscure vicende di quattro capolavori, dallo scavo clandestino all’immissione nel mercato d’antiquariato, al riconoscimento della provenienza illecita, fino alla restituzione al Museo di Aidone: gli “Acroliti”, gli “Argenti”, la “Dea” e la “Testa di Ade”, che hanno reso famoso in tutto il mondo un sito archeologico precedentemente noto solo agli studiosi, nonostante la sua notevole importanza.

Le missioni americane, il museo e gli scavi clandestini 

Il 1955 è l’anno della prima missione archeologica americana a Serra Orlando, diretta da Eric Sjöqvist e Richard Stilwell della Princeton University. L’esplorazione archeologica fu mossa dalle interessanti premesse messe in luce da saggi di scavo di piccola portata, già tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, ad opera di Cavallari, Pappalardo e Orsi, a loro volta incoraggiati dalle frequenti segnalazioni di abitanti e contadini della zona, di rilevanti ritrovamenti durante i lavori agricoli. Le missioni americane, ad intervalli di qualche anno, sono proseguite fino ad oggi. Oltre ai resti monumentali tra i più importanti del Mediterraneo e perfettamente conservati, nei primi trent’anni di scavi sistematici fu rinvenuta una quantità di materiale archeologico sempre crescente, che determinò l’esigenza di un museo nelle immediate vicinanze del sito. Così, nel 1984 fu inaugurato il Museo Archeologico Regionale di Aidone nella sede seicentesca dell’ex Convento dei Cappuccini, con un’esposizione che va dal periodo siculo fino all’epoca classica ed ellenistica. Si tratta di un piccolo e prezioso scrigno che resiste alle pressioni di chi fonda – discutibilmente – il successo dei musei sui grandi numeri della fruizione, piuttosto che sulla qualità correlata al rapporto tra la cultura materiale ed il suo contesto d’origine. Ma facciamo un passo indietro. Con l’inizio delle esplorazioni archeologiche americane, molti abitanti di Aidone parteciparono attivamente agli scavi, impiegati come manovalanza. La consapevolezza dei tesori custoditi dalla terra, la pratica dello scavo archeologico, congiuntamente ad una situazione economica poco agiata e un livello culturale basso, consentirono l’incipit della stagione infelice degli scavi clandestini a Morgantina. Il fenomeno si sviluppò dalla fine degli anni ’70, proprio per mano degli stessi operai che nei periodi di “fermo” delle missioni americane si dedicarono al saccheggio nella zona, purtroppo mai colti in flagranza di reato. C’è da dire, tuttavia, che le aree colpite erano in realtà quelle non ancora esplorate dalle missioni americane, marginali rispetto all’area del parco archeologico, dove venivano poi rinvenute le buche caratteristiche dello scavo clandestino, operato con la complicità del buio e della fitta nebbia, tipica di quest’area geografica. Ben presto il fenomeno dilagò e il tombarolo poteva anche identificarsi con l’agricoltore o il pastore o semplicemente il disoccupato che, in difficoltà economiche, trovava nello scavo clandestino un modo per sostentare la famiglia, inconsapevole dell’immane danno che comportava la sua attività. Così, dopo il primato archeologico, Morgantina acquisì anche il primato di sito flagellato dai tombaroli. Un episodio in particolare destò l’attenzione della soprintendenza. Tra il 1977 e il ’78 furono intercettate ricche deposizioni votive lasciate in superficie dai tombaroli, a seguito di scavi clandestini lungo le pendici orientali di San Francesco Bisconti, località adiacente al pianoro dove qualche anno prima la missione americana aveva portato alla luce il santuario ctonio e, nei pressi, un’estesa necropoli, indagine archeologica che rimase incompleta, determinando l’esclusione di quelle vestigia dal circuito turistico. In quell’occasione, il soprintendente per la Sicilia centro-meridionale Ernesto De Miro autorizzò il custode del parco archeologico di Morgantina ad effettuare il recupero d’urgenza di tutto il materiale rinvenuto in superficie ed un attento rilievo dei reperti in situ, un amatoriale disegno in pianta, ma molto dettagliato. Seppur estremamente frammentario, il materiale residuale del saccheggio si rivelò inaspettatamente di pregevole manifattura, tanto da incoraggiare la Soprintendenza ad effettuare due campagne di scavo nel ’79 e nell’87 proprio in corrispondenza della devastazione dei tombaroli, scoprendo un complesso sacro di notevole importanza che nel 2004 rivelò il Thesmophorion di Demetra. Depositati nei magazzini del museo di Aidone, dopo circa trent’anni questi frammenti – in particolare alcuni riccioli – si riveleranno decisivi per la restituzione di uno dei capolavori da qui trafugati. 

Il principio dei fatti giudiziari e decisive rivelazioni

Per circa un decennio i tombaroli agirono indisturbati, saccheggiando le adiacenze del parco archeologico di Morgantina e sottraendo allo Stato alcuni tra i capolavori più preziosi dell’archeologia mondiale. Dopo ogni fortunato recupero in occasione di scavi clandestini, ad Aidone si vociferava su tali ritrovamenti, voci che purtroppo non giungevano mai all’orecchio del Soprintendente di turno. Ma ad un certo punto avvenne la svolta. Il 7 aprile 1988 fu arrestata una banda di tombaroli, per possesso di reperti in casa propria. Uno di loro fu invogliato a confessare. L’aidonese Giuseppe Mascara verrà ricordato nella storia della Grande Razzia come il “primo tombarolo pentito”. Egli ammise il trafugamento, ad opera della sua banda in combutta con altre bande del posto, di ben due gruppi di reperti inediti: «due maschere bianche come di cera», riferendosi indubbiamente al capo dei due acroliti femminili in marmo bianco, che si presentano scolpite non a tutto tondo ma solo per la parte del volto e del collo, corredate di mani e piedi; l’altro gruppo è un set di ergenti di età tardo-ellenistica di cui rivelò l’esatto punto dello scavo e il museo che li esponeva dal 1980-’81: il Metropolitan Museum di New York, “MET”. Questi due episodi narrati da Mascara, avvalorati da scavi archeologici fatti all’uopo, sollecitarono l’inizio delle indagini da parte del tribunale di Enna. La messa sotto accusa del più potente museo del mondo provocò una sorta di effetto domino da cui emerse la magnitudine del fenomeno transnazionale del commercio illegale di beni culturali. Poco più tardi, infatti, il 22 giugno 1988, nel bel mezzo di una “guerra tra musei”, che all’estero costituiscono veri propri colossi economici in competizione per l’acquisizione di capolavori da esibire, l’ex direttore del MET, Thomas Hoving, rivelò che anche il J. Paul Getty Museum di Malibu (allora rappresentato dalla curatrice Marion True) non era estraneo a febbrili acquisizioni di reperti di provenienza illecita e che aveva recentemente acquistato una statua colossale di divinità femminile pseudo-acrolitica, proveniente proprio da scavi clandestini condotti a Morgantina. Hoving fu considerato attendibile, in quanto, avendo partecipato attivamente ad una delle missioni americane a Morgantina (1957), conosceva molto bene il contesto archeologico. I capolavori provenienti da Morgantina e trafugati all’estero diventarono quindi tre e fu a quel punto che l’attività investigativa del Magistrato Raffiotta si ampliò oltreoceano. Tuttavia, gli sforzi investigativi della magistratura ennese, che portarono alle richieste di rogatorie nell’89 e di accertamenti tecnici sui reperti, in un primo momento non furono supportati dal Governo italiano, a causa di minacce diplomatiche dagli USA e nel ’99 il caso “Morgantina” veniva considerato chiuso. Dopo circa un ventennio di indagini, supportate anche da investigazioni internazionali e di trattative difficili e insolute, a dar forza ai fatti emersi grazie al tribunale di Enna è il processo del 2005 del magistrato della Procura della Repubblica di Roma, Paolo Giorgio Ferri. Venivano incriminati per associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione di reperti archeologici tutti i personaggi già coinvolti nel caso Morgantina (Marion True, Robert Hecht, Robin Symes ed altri ancora) e le richieste di restituzione per quei capolavori confluirono in questo processo. Il processo terminò con la prescrizione ma furono portate a termine importanti trattative, con il rientro dei capolavori nel loro contesto d’origine. 

2008: Il ritorno degli Acroliti

Gli Acroliti arcaici (530 circa a.C.) sono parti di due statue femminili di dimensioni leggermente diverse tra loro realizzate nella tecnica detta appunto “acrolitica” che prevedeva l’impiego, per il busto, di materiali di diversa natura rispetto alle estremità lapidee (legno, avorio, stoffa, ecc.). Questo gruppo di reperti, restituiti al museo di Aidone nel 2008, sono costituiti da due teste in marmo pario corredate da mani e piedi (alla figura più piccola mancano una mano e un piede). Si tratta dell’esempio più antico di reperti acrolitici esistenti ad oggi. Per la rilevanza del culto di Demetra Persefone a Morgantina e per la compatibilità con la composizione delle statue, una leggermente più grande dell’altra, esse sono state interpretate come simulacri a grandezza naturale delle due divinità “madre e figlia” di questo contesto. 
Questi reperti furono scoperti a seguito di scavo clandestino tra il 1978-’79, alla periferia del parco archeologico di Morgantina, in località San Francesco Bisconti. Furono subito immessi nel circuito del mercato illecito di antichità dai fratelli Bentivoglio e tramite un antiquario di origini siciliane, Orazio De Simone, giunsero in Svizzera dove le acquistò il noto trafficante di antichità londinese Robin Symes. Nel 1980 la ricettazione di Symes portò alla vendita degli Acroliti al ricco mecenate Maurice Tempelsman, “il signore dei diamanti”, grazie al quale i capolavori approdano in America. In attesa di formalizzare la vendita al J. Paul Getty Museum, gli acroliti rimasero nella disponibilità di Tempelsman, che li prestò al museo di Malibu per una esposizione temporanea tra il 1984 e l’88. Erano capolavori mai visti prima e mai pubblicati. Ciò richiamò l’attenzione di uno degli archeologi attivi a Morgantina nelle più recenti missioni, Malcom Bell III della Virginia University (scomparso il 7 gennaio 2024), allertato nella fase investigativa che era gia stata messa in moto. Nell’86 una foto dei reperti immortalati nelle vetrine del Getty giunse alla procura di Enna che ne rivendicò la provenienza illecita dal sito di Morgantina. A quel punto, il museo restituì la “patata bollente” al collezionista Tempelsman, il quale, non potendo disporne né più vendere perché ricercati, nel 2003 scese a compromessi con la Virginia University, donando i reperti in cambio dell’anonimato e di vantaggiosi sgravi fiscali. Dopo una breve mostra, la Virginia li restituì al Museo Archeologico di Aidone, dove giunsero nel 2008. Per il piccolo museo nel cuore della Sicilia è la rivoluzione, sia dal punto di vista mediatico che espositivo. Alle due sculture acrolitiche, infatti, fu dedicato un ampio spazio e, prendendo spunto dalla coroplastica, si scelse per esse la posa assisa. In questa occasione, l’allestimento con le parti mancanti rese in discreta armatura di filo metallico, fu completato dalla stilista catanese Marella Ferrera con drappeggi di tessuto ispirato ai filati del passato, allestimento rinnovato nel mese di marzo 2025.

Gli Acroliti

2010: il ritorno degli argenti

La successiva restituzione ha riguardato un set di rari e preziosi argenti dorati di raffinata manifattura greco-ellenistica o magnogreca (III sec. a.C. circa), noto anche come “Tesoro di Eupólemo”, nome riportato nell’incisione dietro uno dei pezzi. Si tratta di un gruppo di oggetti ascrivibili alla sfera del sacro ovvero materiale tesmoforico, come suggeriscono la presenza di due corni, la tipologia delle forme che lo compongono e le dediche votive incise sul retro di alcuni pezzi. Esso consiste in: due grandi coppe ovoidi con piedi a forma di maschere, tre coppe con fondo decorato a sbalzo riproducente delle foglie, una coppetta emisferica con decorazione a reticolo, una tazza bi-ansata, una piccola brocca, una phiale ombelicata, due pissidi con coperchi decorati a sbalzo (una riproducente una donna con cornucopia e un bambino, una riproducente un erote con fiaccola), un altare cilindrico in miniatura, un attingitoio, due corni bovini ed infine – il “pezzo forte” – un medaglione raffigurante il mostro marino Scilla nell’atto di scagliare un masso. Come confessato dal “tombarolo pentito”, gli argenti furono rinvenuti in uno scavo clandestino alla fine degli anni Settanta in contrada San Francesco Bisconti e già nel 1980 il gruppo di tombaroli si era mosso per smerciare il ricco bottino che giunse in svizzera. Il MET li acquistò in più occasioni attraverso le case d’asta, un primo lotto nel 1981, un secondo lotto nel 1982, infine nel 1984 il museo acquisisce l’ultimo pezzo, per un costo totale di 2.472.000 dollari. I primi due lotti furono oggetto di una pubblicazione nel 1984 da parte dello stesso museo, in cui si dava una sommaria indicazione della provenienza dal meridione d’Italia e un’indicazione sul rinvenimento risalente a circa un secolo prima. Anche in questo caso, la messa in mostra degli oggetti destò qualche dubbio da parte di diversi studiosi. L’attribuzione a Morgantina fu avanzata proprio durante il processo del tribunale di Enna del 1988 (forti della confessione del tombarolo) e quando fu interpellato il direttore del MET, Philippe de Montebello, la risposta fu l’ennesima menzogna neppure supportata da alcuna documentazione: prima di giungere in Svizzera, gli argenti sarebbero appartenuti ad un antiquario di Beirut sin dal 1961, a sua volta ereditati dal padre. Anche in questo caso, per le nostre Autorità le circostanze non furono ritenute sufficienti ad avviare una rogatoria per i preziosi reperti. Nel tentativo di trovare indizi utili a rafforzare le accuse, nel 1997 la procura di Enna dispose alla Soprintendenza la realizzazione di uno scavo di verifica nel punto indicato dal tombarolo. Fu quindi incaricato l’archeologo Malcom Bell, che a seguito dell’attività di esplorazione portò alla luce i resti di un’abitazione risalente al IV secolo a.C. con i segni dell’assedio romano del 211 a.C. e di quello dei tombaroli, che avevano lasciato delle buche sotto il pavimento (compatibili con un nascondiglio per gli argenti) e avevano totalmente sconvolto i depositi di quell’area in più punti, tantoché l’archeologo trovò assieme a monete antiche anche una moneta da 100 Lire risalente al 1978, usata quindi per datare l’episodio raccontato dal tombarolo pentito. Inoltre, visitando di persona l’esposizione degli argenti al MET, il prof. Bell constatò la presenza dell’iscrizione “Eupólemos” incisa sotto uno dei pezzi, nome già noto a Morgantina (presumibilmente un facoltoso abitante della polis) perché presente in un’iscrizione su una tavoletta in piombo conservata presso il museo di Aidone. Come se gli innumerevoli indizi e la confessione del tombarolo non bastassero, il MET avrebbe anche dovuto trovare un modo – inesistente – per giustificare la presenza, nelle decorazioni, di soggetti esclusivi della mitologia mediterranea occidentale come Scilla, assente in Libano. Tra un museo indifferente alle accuse e un processo senza l’esito sperato, si arriva al 2005, col processo del PM Ferri di cui abbiamo già discusso, in cui si giunge ad un accordo fatto di compromessi e prestiti reciproci. Per la restituzione del Tesoro di Eupólemo al Museo archeologico di Aidone, il MET ha preteso delle condizioni piuttosto sconvenienti per l’Italia, ovvero il ritorno dello stesso gruppo di argenti al museo newyorkese ogni cinque anni per quarant’anni, col prestito reciproco di qualcosa di valore paragonabile durante l’assenza degli argenti. Così nel 2010 gli argenti fecero ritorno ad Aidone, ma vi rimasero per qualche anno, prima di ripartire per New York. Al loro posto, al Museo di Aidone è stato esposto il tesoro di Kourion, un gruppo di ori del V secolo a.C. da Cipro della collezione Palma di Cesnola, la prima collezione acquisita dal MET alla fine dell’800, in attesa del ritorno degli argenti previsto per gennaio 2019. Durante il periodo in Sicilia, sono stati effettuati approfonditi studi di caratterizzazione degli argenti, che ne hanno rivelato l’estrema fragilità causata da microfratture. Per tale motivo sarebbe auspicabile un’interruzione delle trasferte di questo prezioso e vulnerabile gruppo di reperti.

Gli Argenti di Morgantina

2011: il ritorno della Dea

Il terzo faticoso recupero riguarda la statua colossale pseudo-acrolitica di divinità femminile di fine V secolo a.C., posseduta dal J. Paul Getty Museum col nome di “Afrodite Getty” o “Venere di Malibù”, nonostante l’assenza di attributi che la identificassero univocamente. Col corpo panneggiato scolpito in tenero calcare e la testa, un braccio e un piede in marmo pario, la statua è comunque più vicina all’iconografia di Demetra nell’atto di incedere cautamente nella ricerca della figlia Persefone con una fiaccola in mano (anche in questo caso, assente ogni attributo), mentre un vento lieve fa svolazzare il panneggio fin dietro i polpacci, mettendo in mostra la corpulenta fisicità, più vicina ad una donna matura che non ad una giovane Venere. Senza la confessione di Hoving, sarebbe stato molto difficile provare la provenienza della statua da Morgantina, per via dell’ignoto trafugamento e di una rocambolesca fuga all’estero che quasi non ha lasciato traccia. Secondo le successive ricostruzioni, la statua sarebbe stata rinvenuta a seguito di scavi clandestini a Morgantina nel 1979-’80 in zona San Francesco Bisconti, presumibilmente in corrispondenza dei resti del santuario tesmoforico. Sul tragitto dalla Sicilia fino in Svizzera ci sono molti punti oscuri. Si è detto, ad esempio, che per facilitare il trasporto dentro un camion di carote, l’enorme blocco in pietra calcarea, alto oltre due metri e pesante più di mezza tonnellata, sia stato segato in due punti ottenendo tre blocchi, oltre a circa 80 frammenti più piccoli. Persiste ancora oggi il dubbio sull’originalità della composizione, in quanto le parti in marmo pario potrebbero essere state aggiunte successivamente alla scoperta e non sarebbero quindi pertinenti all’opera originaria e pertanto, oggi, la statua si presta alle più varie ricostruzioni. Qualche anno dopo la statua colossale giunse a Chiasso, dove un tabaccaio di origini siciliane, Renzo Canavesi, la vendette all’antiquario Robin Symes, per la cifra di 400.000 dollari. In una fattura datata 18 marzo 1986 emessa a Symes e compilata da Canavesi, la descrizione della statua è molto accurata tanto da sembrare quasi una perizia, dove ovviamente non mancano le note mendaci per camuffarne la provenienza illecita. Il tabaccaio, infatti, scrisse di essere l’unico proprietario e che era appartenuta alla sua famiglia sin dal lontano 1939. Symes la propose quindi al Getty, il quale insicuro sull’autenticità di una statua così imponente, si prese un anno di tempo per sottoporla a studi scientifici. Dopo averne stabilito l’autenticità e aver accertato col nostro Ministero l’assenza di questa statua tra quelle di provenienza illecita (non si era mai vista prima), nel 1988 il Getty la acquistò per la spaventosa cifra di 18 milioni di dollari, il prezzo più caro al mondo mai pagato per un’acquisizione del genere. Ma quello fu anche l’anno delle sconvolgenti rivelazioni di Hoving e del tombarolo pentito e anche se quest’ultimo si avvalse dell’omertà sulle circostanze del ritrovamento della Dea, il tribunale di Enna decise comunque di chiedere al Ministero indagini petrografiche per provare la provenienza della scultura dalla Sicilia, piuttosto che dalla Grecia, come l’aveva attribuita Marion True, curatrice del Getty. Il punto forte su cui si basava questa richiesta era costituito da una statuetta apparentemente dello stesso materiale calcareo del corpo della Dea, conservata presso il museo di Aidone. Nel 1997 il geologo Rosario Alaimo (Università di Palermo) fu quindi autorizzato a procedere con le indagini petrografiche che provarono la provenienza del calcare di cui era fatta la statua colossale dall’altipiano Ibleo in Sicilia, lo stesso usato anche per ricavare la statuetta. Nonostante gli eclatanti risultati, per molti anni il Getty si fece scudo dietro le dichiarazioni del “collezionista” che l’aveva ceduta a Symes appellandosi alla buona fede. Ma con la pressione del processo romano nel 2005 ed il timore dell’opinione pubblica e della stampa, il Getty fu invogliato a procedere con “volontarie” restituzioni. Per ufficializzare gli studi sulla scultura, nel 2007 il Getty organizzò un workshop dal titolo Cult statue of a goddess, in cui furono presentati tutti i contributi relativi ad aspetti iconografici, archeologici del sito di Morgantina e delle scienze dure, sancendo definitivamente la provenienza della Dea, ora non più Venere Afrodite, da Morgantina con la promessa di restituzione di li a qualche anno. Quando giunse al museo di Aidone, nel 2011, la statua era scomposta nelle sue varie parti (tre grandi blocchi del busto calcareo, a parte, la testa, il braccio destro e il piede destro) e fu necessaria una delicatissima operazione di rimontaggio da parte dei tecnici del Getty, i quali sconsigliarono perentoriamente di ripetere in futuro la stessa operazione dichiarando inamovibile l’opera dal sofisticato piedistallo antisismico, a causa della natura estremamente fragile del calcare.

La Dea di Morgantina

2013: il ritorno di Ade

Quest’ultimo caso di restituzione non è scaturito da vere e proprie indagini investigative, ma casualmente da ricerche archeologiche effettuate dall’archeologa Serena Raffiotta, figlia del magistrato, che ha quindi dato alacremente continuità all’operato del padre, coniugando le proprie inclinazioni professionali alla congenita verve investigativa. Si tratta infatti dell’esito degli studi effettuati nell’ambito della sua tesi di Specializzazione presso l’università di Catania. Era il 2005 quando decise di dedicare la sua tesi allo studio dei reperti depositati da oltre trent’anni presso i magazzini del Museo Archeologico Regionale di Aidone e mai studiati prima. Si trattava di quel cumulo di materiale di coroplastica votiva massacrato dai colpi di piccone e poi scartato dai tombaroli, raccolto durante gli scavi d’urgenza effettuati dalla soprintendenza dopo il saccheggio nell’area sacra, tra il ’77 e il ‘79, al limitare del parco archeologico di Morgantina. Il materiale si rivelò di notevole importanza per lo studio di quel contesto di culto (il santuario in contrada San Francesco Bisconti), più conosciuto ai tombaroli che non alla comunità scientifica. Tra i vari oggetti e frammenti, la studiosa dedicò particolare attenzione ad un ricciolo di terracotta che conservava ancora tracce evidenti di una vivace colorazione blu in superficie, immaginando la probabile appartenenza da una statua o busto a dimensione naturale, purtroppo mai trovato in occasione di scavi archeologi. Dopo due anni dal proficuo lavoro di tesi, per la loro particolarità i preziosi reperti meritarono l’esposizione in museo e i suoi studi furono pubblicati in una monografia con immagini a colori. Poi il destino, che spesso si diverte ad intrecciare vite e circostanze, ha fatto il resto. Nel 2009 il suddetto volume finì nelle mani dell’archeologa Maria Lucia Ferruzza, già ospite al Getty per lo studio delle terrecotte dal Sud Italia ivi esposte, che si stava dedicando alla pubblicazione del catalogo per il museo americano. Tra i capolavori di quel catalogo vi era una Testa di Zeus in terracotta datata al 325 a.C., caratterizzata da folti capelli riccioluti con tracce di pigmento rosso (ematite) e un altrettanto riccioluta barba con tracce di pigmento azzurro (blu egiziano). Un capolavoro dell’arte greca ellenistica, davvero straordinario dal punto di vista storico-artistico e della tecnica, che purtroppo non poteva raccontare molto della sua vera identità, essendo sconosciuta la provenienza e pertanto, in assenza di un contesto, il museo la etichettò genericamente come “Head of a God, Probably Zeus”. Il Getty l’aveva acquista per 530 mila dollari nel 1985, dal magnate e collezionista americano Maurice Tempelsman, cui era pervenuta per il tramite del solito Robin Symes, di cui Tempelsman era uno dei migliori clienti.
L’archeologa Ferruzza, inevitabilmente, riscontrò subito la compatibilità di quel ricciolo studiato dalla Raffiotta con quella testa di divinità maschile esposta al Getty, che riportava una zona lacunosa proprio nella barba, ma anche in vari punti della capigliatura. Dopo un incontro diretto e lo scambio di importanti informazioni, le due archeologhe concordarono nell’attribuire a Morgantina la provenienza della Testa di Ade (unica divinità maschile compatibile con quel contesto di culto) ora non più Zeus, che fu ribattezzato “BarbablùFinalmente Morgantina aveva anche la sua divinità maschile. Purtroppo, nell’anno della scoperta dell’ennesimo trafugamento, le trattative per la restituzione della “Venere” non erano ancora concluse e il momento richiedeva quindi cautela, per non far esplodere un caso diplomatico e perdere la speranza di riavere indietro i capolavori. Fu quindi deciso di sospendere temporaneamente la richiesta di restituzione per la Testa di Ade. Intanto, nel 2011 (stesso anno del rientro della Dea ad Aidone) durante i lavori di riordino del magazzino del museo saltarono fuori altri tre riccioli (due blu e uno rosso) chiusi in una scatolina con una nota che ne indicava il ritrovamento a San Francesco Bisconti nel 1988. Si disponeva in totale di ben quattro riccioli appartenenti ormai senza ombra di dubbio a quella testa di divinità maschile, cosa che accelerò le operazioni per una richiesta di restituzione del reperto. I quattro frammenti furono poi ricongiunti alla testa, nel frattempo ritirata dall’esposizione, in un’operazione di restauro eseguita dallo stesso museo Getty che nel 2013 ne annuncia la “restituzione volontaria” all’Italia. Da quell’anno il museo californiano definì nuovi rapporti di collaborazione e progetti di scambi culturali reciproci con la Regione Siciliana. Ad esempio, tra aprile 2013 e gennaio 2014, è stata realizzata la straordinaria mostra “Sicily. Art and Invention between Greece and Rome” organizzata dal J. Paul Getty Museum e dal Cleveland Museum of Art in collaborazione con la Regione Siciliana, che ha portato prima a Malibù e poi a Cleveland i più pregevoli capolavori dell’arte greca di Sicilia in cui è stato dato il giusto rilievo anche alla Testa di Ade, raccontando per la prima volta il suo rapporto col contesto archeologico di Morgantina. Purtroppo, però, se da un lato si è osservata una “redenzione” da parte del museo californiano, dall’altra si è assistito ad un sostanziale disinteresse e negligenza da parte della Regione Siciliana, che dopo l’imballaggio e i preparativi per la partenza della Testa di Ade da parte del Getty, non riuscì ad impegnarsi per gli aspetti relativi all’accoglienza, ritardando di fatto l’evento tanto atteso, dal 2013 al 2016. Così, nel 2016 fu accolto il prezioso reperto, scartato dall’imballaggio direttamente dall’archeologa Serena Raffiotta a cui fu meritatamente dato l’incarico in qualità di componente della commissione scientifica per la restituzione della Testa di Ade

Testa di Ade

Passato, presente e futuro

L’inizio di queste storie è segnato dal ruolo determinante degli abitanti di Aidone nel saccheggio e spoliazione del sito archeologico più importante della Sicilia Centrale, con il loro operato diretto in qualità di tombaroli e con il velo di omertà che copriva i misfatti. Tuttavia, sin dalla prima restituzione del 2008, ad Aidone si è osservato un radicale mutamento culturale, soprattutto nella generazione dei più giovani, che ha visto nascere associazioni di cittadini attivissimi nella tutela, valorizzazione e fruizione del sito archeologico e del Museo, su cui si punta per uno sviluppo economico e culturale di questo piccolo Comune in provincia di Enna. Oggi Morgantina, con la sua storia di riscatto, è il fiore all’occhiello dell’archeologia siciliana.

Il magistrato Silvio Raffiotta ci lascia dunque un’eredità di legalità, che ha generato una trasmissione di valori e principi morali tra generazioni.

Bibliografia

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S. Raffiotta, La testa di Ade. Un rientro al femminile, in Archeologia Viva, Anno XXXV, n. 177, Maggio-Giugno 2016, p. 2.

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