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Qual è l’humus semantico del concetto di “patrimonio culturale”? Accantonato il linguaggio burocratico delle definizioni da codici e da manuali, Tomaso Montanari, storico dell’arte, saggista e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, attinge al bacino della letteratura per circoscrivere il campo della sua riflessione e lo fa prendendo in prestito «testimone» e «ambasciatore» da Italo Calvino. «Testimone è chi può far fede di un atto o di un detto, per averne avuta diretta esperienza. Ambasciatore è chi rappresenta un’altra sovranità: il tramite di un contatto tra pari». E dove troviamo l’intersezione? «Ogni frammento di ciò che chiamiamo patrimonio culturale testimonia, con la forza della materia, che un tempo altro è davvero esistito» e continua a vivere dentro il nostro tempo.

Virginia Woolf, Simone Weil e Pavel Muratov ci parlano di Firenze, Bernard Berenson di Venezia, sono esperienze di intimità, di paesaggi e di patrimonio storico-artistico, che l’animo di chi osserva sente, avverte, se li «guarda con amore». Uno sguardo che penetra nelle imperfezioni, nelle stratificazioni e nell’abbandono, perché «il discorso sul patrimonio è un discorso sulla custodia, non sul possesso», sulla cura necessaria e sulle inevitabili amputazioni: spoliazioni e incuria, guerre e catastrofi naturali raccontano la storia dei dispersi e dei senza storia. «Quando attraversiamo il patrimonio, siamo abituati a non vedere tutto questo. Quasi ce lo nascondiamo: come se le perdite, i restauri, le ricostruzioni, le coabitazioni di tempi e forme diverse in uno stesso spazio ledessero quell’astratta idea di bellezza che colleghiamo alla durata eterna, quasi a un’immortalità, che siamo portati ad associare all’arte. Ma è tutto il contrario: è proprio in queste sconnessioni, fragilità, lacune, ferite che sentiamo di appartenere a questa storia, e la sentiamo a misura della nostra fragilissima umanità».

Montanari è un diesel: impiega circa cinquanta pagine, metà del libro, per arrivare al nocciolo, al cuore di due questioni cruciali: alla naturale risemantizzazione dell’arte, che la rende corpo vivo di ogni tempo e in ogni tempo, e che «il patrimonio è per eccellenza luogo, e palestra, di scontro. E proprio per questo è così importante per la democrazia, perché offre una educazione sentimentale al conflitto, e insegna l’arte di ricomporlo in equilibri diversi, più avanzati». Un continuo aggiustamento contro ogni sfumatura di nazionalismo, tra conservazione e mercificazione, privatizzazione e interesse generale, identità e meticciato. Antonio Cederna – quanti e quali editoriali infuocati darebbe oggi alle stampe? – citato da Montanari, sosteneva con imperituro vigore, che «solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire la necessità della civiltà moderna». E qui si chiude il cerchio: a partire dall’interpretazione di patrimonio culturale, qual è l’idea di civiltà che vogliamo perseguire? Quella della razza o quella dell’umanità? Quella del beneficio universale o dell’esclusività dei privilegiati? Dovrebbe essere «un cammino fatto di incontri», suggerisce il professore, se però qualcuno – vicino agli ambienti ministeriali attuali – trova nelle pagine di Montanari giusto un «concetto invidioso e marxista del patrimonio» è un segnale, è la direzione di dove stiamo andando: a sbattere.

A questo dunque serve lo studio meticoloso e a questo servono gli intellettuali militanti come Montanari: a dare l’allarme, non a vivere come silenti eremiti nelle torri eburnee dei saperi (come qualcuno vorrebbe).

Tomaso Montanari, Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale, Einaudi, 2023, 109 pp., 13,00 euro.

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