Tutela del Patrimonio Culturale ad Amelia: voci e visioni dalla Conferenza Internazionale ARCA 2025

Ad Amelia, nel cuore dell’Umbria, tra pietre millenarie e silenzi che sembrano custodire segreti antichi, si è svolta tra il 20 e il 22 giugno l’edizione 2025 della Conferenza Internazionale promossa da ARCA. Un incontro che, più che un semplice convegno accademico, si è configurato come un confronto tra visioni del mondo. Perché quando si parla di patrimonio culturale, e soprattutto della sua tutela, non si parla solo di protezione. Si parla di potere, identità, giustizia. E, troppo spesso, di silenzi colpevoli. Gli interventi hanno attraversato tensioni e sinergie che oggi definiscono il campo della tutela dei beni culturali, sospeso tra protezione, mercato, giustizia, identità locale e spinte globali. Un crocevia sempre più affollato, che impone scelte consapevoli, sistemi strutturati e visioni etiche.
Tra i primi a intervenire, Ala’a Otain e Sofia Cecchi hanno acceso i riflettori sull’Arabia Saudita, Paese in profonda trasformazione politica, economica e culturale. Hanno rifiutato l’idea che la tutela equivalga a vincolo, sostenendo invece che la Convenzione UNESCO del 1970 possa essere la base su cui edificare un panorama artistico nazionale vivace e globale. “La tutela non è, e non dev’essere, una gabbia”, hanno affermato. Ma tutto dipende da un’infrastruttura adeguata: leggi efficaci, istituzioni competenti, formazione continua. Le norme funzionano se c’è chi le applica. Altrimenti restano carta.
Dalla sponda opposta del Mediterraneo è giunta l’esperienza della Svizzera, raccontata con lucidità da Tania Esposito. Un Paese noto per la sua neutralità, ma anche per essere stato per decenni uno dei grandi snodi del mercato antiquario internazionale. Dopo vent’anni di applicazione della Convenzione UNESCO, la Confederazione ha cambiato rotta, istituendo un sistema articolato di controllo e cooperazione. Il cuore pulsante di questo processo è l’Ufficio federale della cultura: una struttura specializzata, efficiente, replicabile. La lezione è chiara: non servono proclami, servono strutture. tantissimo ancora resta da fare.
A scuotere la platea è stato Sanjay Adhikari con un intervento destinato a lasciare il segno: That’s Not ‘Art’. That’s Our Aji’s Beloved God. Un titolo che è già dichiarazione di intenti. Il suo è stato un pugno nello stomaco a una certa idea di collezionismo occidentale che, nel nome dell’estetica, ha spogliato intere culture del loro senso più profondo. Perché ciò che in Europa può essere arte, altrove è ancora sacro, vivo, pregato. Adhikari non ha solo denunciato, ha imposto uno sguardo diverso: decoloniale, relazionale, capace di restituire dignità non solo agli oggetti, ma alle comunità che li hanno creati.
Con tono più analitico ma egualmente critico, Valerie Dokter ha messo in discussione il ruolo dell’“esperto”. Troppo spesso, dietro la patina della competenza, si sono nascosti errori, omissioni, complicità. Il sapere, ha affermato, non basta. Serve coscienza. Serve responsabilità. Un discorso che ha trovato naturale prosecuzione nell’intervento di Yagmur Koyuncu, che ha raccontato la metamorfosi in atto nelle istituzioni museali: da depositari opachi di collezioni accumulate con metodi discutibili, a soggetti morali e storici chiamati a fare i conti con il passato. Oggi i musei sono spinti, e spesso costretti, a promuovere la trasparenza, avviare restituzioni, analizzare le provenienze, collaborare con i Paesi d’origine.
Il mercato dell’arte non è rimasto fuori dalla discussione. Aubrey Catrone ha denunciato l’analfabetismo criminale che ancora oggi affligge chi lavora nella valutazione, vendita e circolazione delle opere. Un’ignoranza consapevole, forse una complicità silenziosa. Per cambiare rotta serve formazione sistemica: non solo etica, ma anche giuridica. Perché ogni oggetto ha una storia, e alcune storie pesano più di una firma o di una stima d’asta.
Dalla Libia, Morgan Belzic ha offerto un raro spaccato sul lavoro investigativo sul campo. Non con le parole, ma con i piedi nella polvere e le mani tra i frammenti. Documentare, identificare, restituire: questo è il lavoro, spesso silenzioso, che riporta a casa ciò che è stato rubato. Accanto a lui, Eleni Vassilika ha raccontato un caso eclatante di corruzione museale, dove l’autorità accademica è stata piegata a interessi illeciti. Quando il sapere viene strumentalizzato, il danno è doppio: alla giustizia e alla fiducia pubblica.
Sul fronte giuridico, Mirta Aktaia Fava ha sollevato un nodo cruciale: il crescente ricorso degli Stati all’immunità sovrana nei contenziosi internazionali – come nei casi Sotheby’s vs. Greece e Safani vs. Italy – rischia di creare un cortocircuito tra giustizia e mercato. Una frattura che penalizza i piccoli attori privati, lasciandoli esposti a logiche di potere che nulla hanno a che fare con l’equità. Il rischio è quello che Fava definisce un “effetto Golia”, dove Davide resta senza fionda.
Il tema delle restituzioni è riemerso con forza nell’intervento di Yasmine Zahir, che ha preso a esempio il caso del diamante Koh-i-noor, rivendicato dall’India e trattenuto dal Regno Unito. Un contenzioso che va ben oltre la sfera legale: è simbolico, identitario, storico. Possiamo applicare criteri post-coloniali a eventi ottocenteschi? Fino a che punto può spingersi il diritto internazionale quando si scontra con il potere delle narrazioni imperiali?
Formazione e comunicazione hanno rappresentato un altro pilastro della conferenza. Dawn Rogala ha illustrato come gli Stati Uniti stiano preparando le proprie agenzie federali ad affrontare il traffico illecito come una minaccia strutturale, non episodica. K.T. Newton ha proposto la figura del consulente post-processuale: un esperto che interviene dopo il giudizio, per guidare le fasi successive e costruire soluzioni sostenibili. Camilla Brunazzo Chiavegato ha infine denunciato le “piccole grandi colpe” dei curatori museali, spesso ignorate, ma proprio per questo più subdole e sistemiche.
Due interventi hanno offerto prospettive inedite sul ruolo dei media e della tecnologia. John Kerr ha esplorato la figura del “detective psichico” e l’uso della narrazione mediatica come strumento di coinvolgimento pubblico. Perché senza opinione pubblica, non c’è pressione. E senza pressione, non c’è giustizia. George Katz ha infine presentato il metodo Bellingcat: inchieste open-source, rigorose, legalmente solide, che uniscono giornalismo e giustizia in una nuova frontiera investigativa.

Il bilancio finale della conferenza è netto: il sistema attuale è ancora pieno di contraddizioni, ma oggi esistono strumenti normativi, etici, investigativi e culturali per costruire una tutela del patrimonio culturale che non sia più solo reattiva, ma proattiva. Non solo conservativa, ma anche trasformativa. Non solo difensiva, ma profondamente giusta.
A rendere possibile un’iniziativa di questa portata non è soltanto la qualità degli interventi o la profondità delle riflessioni, ma anche la cura meticolosa dell’organizzazione. Anche quest’anno la conferenza si è distinta per efficienza e accoglienza grazie alla direzione di Lynda Albertson, instancabile padrona di casa e anima del progetto ARCA, affiancata da uno staff coeso e competente. In primo piano Alice Bienintesi, figura di riferimento nell’organizzazione generale, e Alessio Rossi con Valeria Rossi, il cui contributo logistico e gestionale ha assicurato fluidità all’intero svolgimento dell’evento. Un ruolo fondamentale è stato svolto anche da ex studenti del programma ARCA, presenti come ospiti, ma generosamente impegnati a garantire il successo operativo dell’iniziativa. Tra loro, Catarina Pinto, che si è distinta per versatilità e dedizione: dal coordinamento del welcome desk alla gestione dei coffee breaks, dalla cura dei contenuti social fino all’assistenza in loco, contribuendo in maniera determinante all’atmosfera di professionalità e calore che ha caratterizzato l’incontro. Allo stesso modo, Emily Finch, oltre a intervenire come relatrice in uno dei panel, ha offerto supporto tecnico durante le sessioni, ha coordinato gli spostamenti tramite navette e ha creato momenti di coesione con gli ex studenti, mantenendo vivo lo spirito di comunità che da sempre contraddistingue ARCA.
Insomma, in un contesto tanto complesso quanto delicato come quello della tutela del patrimonio culturale, la riuscita di un evento internazionale non può prescindere da una macchina organizzativa ben calibrata e da una visione umana capace di coniugare rigore scientifico e ospitalità autentica. Amelia 2025 ne è stata, ancora una volta, la dimostrazione.

The Journal of Cultural Heritage Crime (JCHC), con sottotitolo L’Informazione per la Tutela del Patrimonio Culturale, è una testata giornalistica culturale, registrata presso il Tribunale di Roma con n. 108/2022 del 21/07/2022, e presso il CNR con ISSN 2785-7182. Si configura sul web come contenitore di approfondimento, il primo in Italia, in cui trovano spazio i fatti che quotidianamente vedono il nostro patrimonio culturale minacciato, violato e oggetto di crimini. I fatti sono riportati, attraverso un linguaggio semplice e accessibile a tutti, da una redazione composta da giornalisti e da professionisti del patrimonio culturale, esperti nella tutela. JCHC è informazione di servizio, promuove le attività di contrasto ai reati e sostiene quanti quotidianamente sono impegnati nella attività di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.