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Siamo tutti viaggiatori nella natura selvaggia di questo mondo, e il meglio che possiamo trovare nei nostri viaggi è un amico onesto

R.L. Stevenson

Tutti ormai parlano del San José, un veliero di guerra della flotta di Filippo V di Borbone, primo re di Spagna di quella dinastia. Il galeone fu affondato dalla flotta della corona inglese comandata dall’Ammiraglio Sir Charles Wager: era il 10 giugno 1708 e il fatto avvenne nel corso della battaglia navale di Barù, al largo delle coste di Cartagena (attuale Colombia), durante una delle fasi più concitate della Guerra di Secessione Spagnola (1701-1714). Le imprese corsare della flotta del Regno di Gran Bretagna sono episodi noti in quelle acque, hanno ispirato tanti romanzi, su tutti quello di Robert Louis Stevenson, nel quale si narra della ben nota isola. Bandiere nere con teschio e tibie incrociate, pirati spietati, cicatrici, sfregi, uncini e rum a fiumi, sono gli ingredienti di quelle schermaglie che si sono consumate lungo le coste caraibiche e del sud America. Ovviamente il protagonista sovrumano è il tesoro.

Filippo V di Borbone (1683-1746).

Il fascino immutato della preda delle prede, al centro di una caccia avente lo scopo di accaparrarsi un bottino che, celato in un relitto, ammonta a oltre venti miliardi di dollari, tra gioielli, monete d’oro e pietre preziose. Il tutto giace su un fondale di circa seicento metri: una profondità irraggiungibile fino a qualche decennio fa, non facile da gestire perfino oggi, soprattutto per i rischi e i costi connessi all’ingaggio degli specialisti e all’utilizzo di particolari attrezzature.

Questa caccia è iniziata nei primi anni Ottanta. A condurla una società statunitense con sede legale alle Cayman, contro cui il governo colombiano ha portato avanti, conseguendo un esito positivo, una disputa arbitrale trascinatasi fino al 2011. Nel 2015 è stato annunciato, dalla Presidenza della Repubblica Colombiana, il recupero di alcune parti del relitto da destinare ad un museo. È di qualche giorno fa la notizia che, probabilmente, sono stati reperiti i finanziamenti per portare avanti la missione di recupero del tesoro: la spedizione, che dovrebbe partire il prossimo aprile, si avvarrà di un robot subacqueo in grado di lavorare a quella profondità. Gli esperti parlano della più ingente fortuna mai identificata sotto la superficie dei sette mari. Qualcuno, in preda di ulteriori suggestioni, ha parlato perfino di “Santo Graal dei naufragi”.

I dati dell’imbarcazione sono noti. Fu costruita nel 1696 nei paesi baschi, aveva tre ponti, pesava quasi millecento tonnellate ed era armata con quarantaquattro cannoni. Insieme con la nave gemella San Joaquìn, furono modificate a Cadice per essere poi utilizzate nelle rotte dei mari sudamericani; furono anche impiegate per trasportare personaggi importanti come il marchese di Castelldosrius Viceré del Perù e l’Arcivescovo di Santa Fe. Testimonianze narrano che il San José colò a picco all’improvviso, probabilmente a seguito dell’esplosione della sua Santa Barbara, bersaglio delle artiglierie albioniche. Chissà come si disperse tra i flutti ed i gorghi il suo carico umano, oltre quello di cui si parla, forse anche un po’ a sproposito.

L’occasione è tuttavia propizia per ricordare come questo tipo di situazione sia disciplinata anche dal diritto internazionale, in particolare dalla Convenzione UNCLOS (1982). Tale documento, firmato da centosessantotto stati, stabilisce i diritti e le responsabilità delle nazioni in relazione alle risorse marine, e traccia anche le linee guida che sovrintendono alle trattative per la gestione dell’ambiente e delle risorse naturali. Nel 2001 questa Convenzione è stata adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO ed è stata fortemente voluta dalla comunità internazionale per contrastare le azioni di saccheggio e distruzione del patrimonio subacqueo, presentando uno standard internazionale di protezione e appropriate misure legali non disgiunte dall’implementazione di procedure tecniche.

Nella vicenda specifica, l’archeologia subacquea, coerentemente con la normativa appena citata, è la disciplina più adatta, e di cui avvalersi, per ricostruire la storia dell’affondamento del San Josè: sarebbe auspicabile l’avvio di un processo di studio specifico e adeguato che, basato non solo su fonti scritte ma anche attraverso i segni materiali che saranno recuperati, possa confermare o meno le ipotesi sul fatto accaduto. Rifuggiamo pertanto da rapaci predoni, senza subire il fascino perverso della patina d’oro. Ritroviamo, anche in questo caso, qualcosa di creativo, non disgiunto dalla natura, che scongiuri la sopraffazione dell’istinto distruttivo dell’uomo.

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