La caccia al tesoro di Ascoli Satriano

Tra tutte le indagini che ho svolto nella mia oltre ventennale attività nel Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma, sicuramente quella che riportò a casa il celebre Trapezophoros è una delle più singolari, visto che a chiedermi di ritrovare il prezioso reperto fu lo stesso tombarolo che l’aveva rubato e immesso nel mercato clandestino

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Era il 2005 e, assieme al mio collega Pompeo Micheli, mi trovavo a Santa Maria Capua Vetere per un processo che vedeva coinvolti i più noti tombaroli del sud Italia. Tra questi c’era una mia vecchia conoscenza, Savino Berardi, molto attivo nella zona di Ascoli Satriano, nel foggiano. Tra me e Berardi esisteva quello strano legame che spesso si instaura tra guardie e ladri e così, durante una pausa del processo, vedendolo visibilmente dimagrito e affaticato, mi avvicinai per salutarlo e chiedergli come stesse. Berardi mi confermò che purtroppo accusava da tempo problemi di salute ma poi, attento a non farsi sentire dalla moglie, anche lei coinvolta nel medesimo caso giudiziario, e soprattutto dagli altri “colleghi”, mi sussurrò: «Marescià, devo raccontarle una storia importante, di lei mi fido­». Incuriosito da quello strano comportamento gli allungai con discrezione un mio biglietto, dicendogli di chiamarmi a suo piacimento.

«Mi calai alla profondità di circa quattro metri per ritrovarmi in un ambiente piuttosto ampio, una specie di grossa stanza. Con la torcia faticavo a scorgere le pareti ed ero consapevole del rischio che stavo correndo: da un momento all’altro mi sarebbe potuto crollare tutto addosso e quella enorme cavità sarebbe diventata la mia, di tomba. Il buon senso mi diceva di farmi tirare di nuovo su in tutta fretta, ma allo stesso tempo qualcos’altro mi spingeva a continuare a guardarmi attorno. Con estrema incoscienza feci qualche passo finché non mi ritrovai davanti a una colonna. Era così grande che non sarei riuscito ad abbracciarla. Preso da una crescente euforia continuai ad andare avanti e finalmente il fascio di luce della mia torcia illuminò una scultura di marmo che, persino in quel buio, mandava riflessi di tutti i colori. Era la cosa più bella che avessi mai visto… ».

Quando smise di parlare aveva le lacrime agli occhi e devo ammettere che anch’io avevo la pelle d’oca. Ripresosi dall’emozione, Berardi spiegò che portare la scultura in superficie fu un’operazione laboriosa e pericolosissima perché si verificarono diversi crolli. Nonostante il pericolo, qualche giorno dopo, decise ugualmente di calarsi ancora nella buca per tirare fuori altri pezzi, come un bacile rituale detto podanipter e altri pezzi minori, ma tutti appartenenti allo stesso complesso e del medesimo splendido marmo policromo. Il Trapezophoros e il podanipter li vendette, ma i pezzi minori li tenne per sé, quest’ultima una prassi consolidata tra i tombaroli che in questo modo hanno un’arma di ricatto verso i compratori o possono tentare di rivenderglieli successivamente. In gergo vengono chiamati orfanelli. A questo punto venne spontanea la domanda: dove sono questi pezzi? Berardi ci disse che, qualche tempo dopo, forse in base a una soffiata la Guardia di Finanza fece una perquisizione a casa sua e li sequestrò arrestandolo per detenzione illegale di reperti archeologici. «Se li trovate avrete le prove che cercate», concluse. Poi, con le lacrime che ancora gli rigavano il volto scavato dalla malattia, Berardi mi appoggiò una mano sulla spalla e, con voce accorata, aggiunse una frase che non scorderò mai: «So di aver commesso un crimine enorme e ora che sono prossimo alla fine non voglio morire con questo peso sulla coscienza. La prego, maresciallo Lai, riporti il Trapezophoros in Italia e faccia che possa andarmene in pace».

I Grifoni di Ascoli Satriano
Il Trapezophoros di Ascoli Satriano

Avrei voluto dirgli che era troppo facile cercare di lavarsi la coscienza in questo modo, che se ora un simile capolavoro si trovava all’estero era solo colpa sua, ma che senso aveva accanirsi contro un tombarolo che, mi si perdoni l’ironia, aveva già un piede nella fossa? Mi limitai ad annuire promettendogli che avrei fatto tutto il possibile e la caccia al tesoro ebbe inizio. Quella sera stessa io e Morando eravamo già alla pretura di Foggia in cerca della documentazione sul sequestro effettuato a casa di Savino Berardi. L’ufficio stava per chiudere ma trovammo un collega, il maresciallo Foglia, che si offrì di darci una mano. «Prima di tutto, disse, bisognava cercare nella bandetta», un enorme faldone di fogli di carta leggerissima sul quale, prima dell’avvento dei computer, si teneva l’elenco di tutti gli arresti effettuati. Era ormai notte fonda quando trovammo la bandetta relativa a 30 anni prima, ma con nostra grande soddisfazione il procedimento a carico di Berardi saltò fuori. Non riuscimmo a reprimere un’esclamazione di trionfo. La successiva tappa fu la Pretura di Orta Nova, dove risultava essere stata archiviata la documentazione che tanto cercavamo. Ci attendeva però una brutta sorpresa: gli uffici non esistevano più. Gli archivi erano stati stipati in un container e portati alla nuova pretura di Cerignola. Qui finalmente trovammo il container ma quando lo aprimmo per poco non ci prese un accidente: davanti a noi c’erano centinaia di faldoni tanto malridotti da essere buoni solo per il macero. Malgrado polvere e muffa, ci mettemmo immediatamente al lavoro: non avevamo certo intenzione di mollare. La nostra determinazione venne premiata, perché dopo ore di ricerca e starnuti scoprimmo che i reperti sequestrati dalla Finanza a Berardi erano custoditi nel palazzo comunale di Foggia. La statale 16 che collega Cerignola al capoluogo è un rettilineo di circa quaranta chilometri e lo percorremmo a tempo di record. Una volta arrivati al Comune ci venne detto che i locali adibiti dalla soprintendenza a deposito erano collocati nel sottotetto. Lo raggiungemmo facendo la scale due a due e finalmente, coperte di ragnatele e rosicchiate dai topi, trovammo una serie di casse i cui cartellini ingialliti dal tempo indicavano “Sequestro Berardi”. Bingo! Le aprimmo col cuore in gola trovando in tutto 19 grossi pezzi di marmo. Con un panno umido eliminai la polvere e la luce della preziosa pietra multicolore dai riflessi cristallini venne fuori in tutto il suo splendore. Ce l’avevamo fatta.

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Dopo esserci consultati con il magistrato prendemmo in carico i reperti e li portammo al Reparto TPC di Roma. Vennero lavati con cura dal collega Antoci, che con la consueta pazienza riassemblò i pezzi uno a uno: si trattava di due mensole e alcuni vasi ed erano davvero stupendi. Ora spettava all’archeologo Angelo Bottini, all’epoca sovrintendente dei beni archeologici di Roma, darci la conferma che quei reperti potessero essere riconducibili a quelli custoditi al Getty Museum. Quando Bottini li vide per poco non svenne, letteralmente, dall’emozione. Fu la conferma definitiva che avevamo fatto centro. A questo punto però era necessario tracciare il percorso che aveva condotto il Trapezophoros fino a Los Angeles per poterne rivendicare la restituzione. In soccorso ci venne un tanto inaspettato quanto provvidenziale colpo di fortuna. I colleghi del reparto TPC diretti dal magistrato Paolo Giorgio Ferri, erano da tempo sulle tracce di una società fiduciaria svizzera, la Edition Service, che faceva capo a uno dei più famosi trafficanti di opere d’arte, il leggendario Giacomo Medici. Scoprirono così che la Edition Service era titolare di un caveau presso il porto franco di Ginevra, luogo preferito da trafficanti di ogni genere per occultare merci che scottano. Dopo lunghe e laboriose trattative il giudice Ferri riuscì ad ottenere un mandato di perquisizione e il caveau si rivelò essere un’autentica stanza del tesoro. Reperti antichi addirittura ancora sporchi di terra, altri pronti per essere immessi nel mercato, e una montagna di foto polaroid raffiguranti un numero incredibile di altri oggetti preziosi evidentemente venduti da Medici a compratori di tutto il mondo. Vagliate una per una, tra queste polaroid ne venne trovata una che raffigurava proprio il Trapezophoros. Sulla foto era anche scritto a pennarello Ascoli Satriano e, come se non bastasse, la scultura era poggiata su un giornale che risultò essere italiano. Finalmente il trafficante che a cui Berardi aveva venduto le merce aveva un nome. A questo punto tutte le tessere del mosaico combaciavano e finalmente poté partire la richiesta di restituzione al Getty Museum. Non fu un’operazione facile ma quell’indagine aprì un vaso di Pandora dal quale emersero incredibili concussioni tra i vertici del celebre museo americano, Medici e altri intermediari di grossissimo calibro. Starli ad elencare tutti genererebbe solo una grande confusione, ma vi basterà sapere che il Getty pagò il Trapezophoros cinque milioni e mezzo di dollari, mentre altri due vennero sborsati per il podanipter. Questa vicenda fu una pessima pubblicità per il prestigioso museo, che dopo un tira e molla durato due anni, nel 2007 acconsentì alla restituzione dei due capolavori allo Stato Italiano, con l’aggiunta di altri reperti minori sempre di provenienza illecita. Il cerchio finalmente si era chiuso.

Tornai a Stornarella, la frazione di Ascoli Satriano dove abitava Berardi in un grigio pomeriggio di pioggia. Ero ansioso di comunicargli che il suo desiderio era stato esaudito, ma a casa trovai solo la moglie e uno dei figli. Berardi era morto, stroncato dal male che lo affliggeva. Quelle notizia mi rattristò parecchio, ma i reperti erano tornai in Italia e io avevo mantenuto la parola data. E se oggi questo fantastico tesoro è custodito nel museo di Ascoli Satriano è anche merito mio, dei miei colleghi e, a modo suo, di Savino Berardi, il tombarolo pentito.

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