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I vasi apuli restituiti all’talia nella mostra al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (Foto: Maurizio Pellegrini).

Non fanno rumore i vasi quando tornano a casa. Non piangono, non cantano inni. Non chiedono giustizia né vendetta. Tornano in silenzio, con la stessa grazia con cui furono sepolti più di duemila anni fa nelle tombe dei loro prìncipi. Tornano e basta.

Al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia sono tornati per un tempo breve ma significativo. Sei vasi apuli, crateri dalle pance enormi e dai colli ampi, insieme ad altri pezzi. Venticinque in tutto. Hanno salutato Roma, dove sono stati esposti con sobrietà e rispetto, e ora si avviano verso la Puglia: in prestito al Castello Svevo di Bari, per poi raggiungere Palazzo Filiasi a Foggia, non appena il Museo dell’Arte Salvata pugliese sarà pronto. Li avevano portati via o, per meglio dire, erano spariti. Con quel termine ovattato che nasconde mille complicità e nessuna responsabilità. Dal Tavoliere pugliese alla teca berlinese dell’Altes Museum, il salto è stato breve come una fuga e lungo come una dimenticanza. Erano finiti lì, nell’ambiente elegante e severo della Fondazione per l’Eredità Culturale Prussiana, dove l’ordine impeccabile riesce talvolta a velare anche le storie più complesse. 

Trafugati tra gli anni Settanta e gli Ottanta, quando ad “andare a tombe” nottetempo erano numerose squadre di scavatori clandestini, i reperti furono sottratti alla terra rossa di Ascoli Satriano. O almeno così sostengono le autorità preposte. Ma chi può dirlo davvero? Dove manca la certezza, restano le ipotesi. Alcune, forse, risultano plausibili e suggeriscono una provenienza diversa.

Passarono quindi di mano in mano come merce qualsiasi. Smarriti nel mercato nero, acquistati da una famiglia svizzera e infine rivenduti nel 1984 all’Altes Museum dal mercante d’arte Christopher Leon per tre milioni di marchi. Un colpo da manuale, senza clamore. Restituiti, si dice. Come se la Storia potesse funzionare al pari di un reso Amazon. “La data” è quella del 13 giugno 2024. Quel giorno, a Berlino, tra il Ministro italiano Gennaro Sangiuliano e la Ministra tedesca Claudia Roth, è stato firmato l’accordo di restituzioneUna stretta di mano tra istituzioni. Ma dietro quella stretta ci sono dossier, ricerche, confronti stilistici, analisi iconografiche. C’è chi ha lavorato in silenzio, chi ha ricucito il filo della verità, un frammento alla volta.

In barba al becero principio della bigliettazione prima di tutto, quella all’ETRU non è stata una mostra da grande pubblico, sedotto piuttosto dal sensazionalismo di cui si nutre certa cronaca e quindi proiettato verso altre mete. Ma è stata una mostra necessaria, che ha ricostruito la memoria – pur con qualche lacuna -, restituito dignità e denunciato. Un mondo affascinante, lontano da quel fenomeno dell’overtourism che soffoca i monumenti e le aree archeologiche più celebri. La mostra ha ascoltato le storie di Niobe, di Afrodite, di Eracle imbastite dal Pittore di Dario – non dal Pittore di Berlino, come qualcuno ha scritto, forse ingannato dal transito dei vasi nella capitale tedesca. O forse per ignoranza. E dietro di loro, come un’eco mai sopita, le storie dei Dauni, di quei prìncipi sepolti con i loro crateri perché l’Ade non li trovasse soli. Gente antica, mediterranea, ostinata. Un po’ come noi, quando chiediamo la restituzione del maltolto.

E allora li osservi, quei vasi, e ti chiedi che cosa abbiano visto. Potrebbero descrivere il piccone dei tombaroli, il lunghissimo viaggio, il silenzio complice di dogane stanche, il disinteresse delle istituzioni. O se invece hanno solo atteso, muti, in un museo straniero, che qualcuno si accorgesse dello stile fermato nelle raffigurazioni, della provenienza, del sudore sotto la vernice. Della loro “vita sociale”, quella a cui sono stati costretti dopo la sepoltura, che gli antichi avevano inteso come eterna.

Chi ha avuto l’ardire di riportarli indietro non ha fatto un gesto politico. Ha fatto un gesto umano. Quasi privato. Restituire ciò che non ci appartiene non è un atto di eroismo. È un atto di responsabilità. E viene in mente una frase, di quelle che si leggono sulle pareti o nel taccuino di un viaggiatore: non si può rubare l’anima di un popolo senza perdere anche la propria.

E senza essere teneri con la retorica delle restituzioni, è possibile affermare senza ironia: bravi! Bravi a chi li ha cercati, bravi a chi li ha accolti. Bravi a chi, intuendone la provenienza, non ha fatto rumore. Perché dietro le cerimonie ufficiali, i comunicati stampa e le foto istituzionali, c’è un lavoro di ricerca e documentazione che dura anni, spesso decenni, e che porta la firma di archeologi e, in generale, di professionisti del patrimonio culturale i cui nomi restano talvolta celati. 

Abbiamo raggiunto Maurizio Pellegrini, archeologo e già funzionario di soprintendenza presso la sede dell’Ufficio Sequestri e Scavi Clandestini di Villa Giulia, per provare a ricucire, attraverso le sue parole, quel filo sottile fatto di ricerca silenziosa, responsabilità e memoria. Per capire meglio che cosa significhi davvero “restituire” e quanto costa, in termini umani e professionali, far parlare la storia senza clamore. Lo abbiamo incontrato per ricostruire il percorso della restituzione celebrata dalle istituzioni, e per riflettere sul ruolo, spesso invisibile, degli archeologi nella lotta contro il traffico illecito di antichità.

Maurizio, che cosa sappiamo di questa restituzione? Dove affonda le radici questa storia?

Io potrei dire che sappiamo tutto. La storia comincia da molto lontano. Alcune immagini dei vasi che sono passati per il Museo di Villa Giulia le abbiamo ritrovate, in formato Polaroid, nei depositi di un noto trafficante italiano. Quelle foto, supporto atipico per materiali archeologici, furono sequestrate nel 1995 al Porto Franco di Ginevra. Rappresentavano vasi apuli di notevole importanza, in frammenti e in condizioni che nulla avevano di scientifico. Quando, nel 2000, le Polaroid arrivarono in Italia, corredate di tutta la documentazione, presso la Procura di Roma, su richiesta del compianto magistrato Paolo Giorgio Ferri e dell’allora comandante del TPC dei Carabinieri, Roberto Conforti, selezionammo le immagini degli oggetti più eclatanti e in condizioni che escludevano una detenzione regolare. Furono quindi pubblicate sul sito dell’Arma dei Carabinieri come oggetti da ritrovare, in attesa di eventuali segnalazioni utili.

Quelle immagini di vasi, fotografati come fossero ostaggi, non erano prove già sufficienti?

No, evidentemente occorreva altro. I vasi apuli individuati presso il Museo di Berlino furono riconosciuti anche dalla curatrice del P. Getty Museum, Marion True, nel giugno 2001 a Los Angeles, quando Paolo Giorgio Ferri la interrogò per la prima volta sull’acquisizione di circa cinquanta reperti riconosciuti tra le foto sequestrate. C’eravamo anche noi. In quell’occasione parlammo a lungo anche del celebre trapezophoros marmoreo raffigurante due grifoni che attaccano una cerva, poi restituito all’Italia, e che anni dopo scoprimmo essere strettamente legato ai vasi apuli di Berlino. Nel 2003, Ferri inoltrò una rogatoria internazionale alle autorità tedesche per il corredo di 21 vasi apuli del museo di Berlino, tra cui i quattro raffigurati nelle Polaroid. Tuttavia, la presenza di queste immagini nel deposito ginevrino non fu considerata prova sufficiente e anche il sopralluogo dei Carabinieri del TPC a Berlino si concluse con un nulla di fatto.

Alla fine del 2005 iniziò il processo contro Giacomo Medici, Marion True e Robert Hecht. Io e l’archeologa Daniela Rizzo riprendemmo a lavorare sugli archivi sequestrati per raccogliere ulteriori prove. Scoprii che tre dei vasi esposti a Berlino erano ritratti in Polaroid con lo stesso numero di supporto di quelle che mostravano il trapezophoros e la lekanis in marmo policromo, pezzi per cui era già stata avanzata richiesta di restituzione al P. Getty Museum. Lo stesso numero di supporto fotografico rappresentava un chiaro indizio di provenienza da un unico scavo clandestino.

Perché ci sono voluti venticinque anni per farli tornare?

Durante il processo, quando Medici era già stato condannato con rito abbreviato, due giornalisti del Los Angeles Times fornirono al Giudice Ferri un documento interno del P. Getty Museum che conteneva due notizie fondamentali: il traffico era partito da un contatto diretto con Medici e i marmi policromi erano stati rinvenuti in una sepoltura in Puglia, in località Orta Nova (FG), insieme a numerosi vasi attribuiti al Pittore di Dario, lo stesso autore di alcuni vasi del museo di Berlino. Tuttavia, per me non era abbastanza. Le Polaroid del trapezophoros e della lekanis erano sei, quelle dei vasi apuli tredici: diciannove in totale. Ma sapevo che le confezioni Polaroid standard erano da otto scatti, quindi poteva trattarsi di confezioni diverse, e questo non garantiva che fossero state utilizzate da una sola persona nello stesso arco temporale. Non mi arresi. Dopo una lunga ricerca sul web, arrivai perfino a contattare la Polaroid, che mi confermò l’esistenza di confezioni da 20 scatti. Eureka! Il puzzle combaciava. Nel 2016 pubblicai un articolo sulla rivista Archeo e presentai la scoperta in una conferenza a Viterbo. Poco dopo, la Guardia di Finanza mi contattò per un interrogatorio e la Procura della Repubblica di Foggia avviò un’indagine. Nello stesso anno, i Carabinieri del TPC intrapresero un’altra indagine, questa volta con la Procura di Roma. Venticinque anni possono sembrare tanti, ma ora i vasi sono tornati e ho potuto vederli dal vivo per la prima volta.

Il documento interno del P. Getty Museum con le informazioni decisive (Fonte: Maurizio Pellegrini).

Certo, è un tempo che scivola lento solo per chi non ha seguito ogni tappa. Per chi, come te e Daniela Rizzo, ha vissuto ogni incertezza, ogni carta, ogni ostacolo, sembra un tempo sospeso. A questo punto, sarebbe interessante conoscere la tua opinione su come cambiano le indagini quando entra in gioco un archeologo.

Direi che fa la differenza. Quando tutto è cominciato, Daniela Rizzo era già stata contattata dal Generale Conforti e dal PM Ferri per il caso Medici. Era la responsabile dell’Ufficio Sequestri e Scavi Clandestini, unico ufficio del genere in tutto il Ministero. A differenza degli altri sequestri, in cui bastava stabilire l’autenticità e il valore storico dei reperti, si iniziò a lavorare in modo completamente diverso, ridefinendo il ruolo dell’archeologo nelle indagini coordinate dalla magistratura. Poco dopo entrai anch’io nello staff di supporto a Ferri e Conforti. Cominciai a confrontare le immagini dei reperti sequestrati, o quelle conservate negli archivi, con i cataloghi di case d’asta, mostre, musei e documenti di acquisizione. Conoscendo i materiali, le loro possibili provenienze e soprattutto i danni provocati dagli scavi clandestini, il nostro contributo si rivelò fondamentale. Proprio confrontando le foto dei materiali sequestrati al Porto Franco di Ginevra con la documentazione fornita dalla casa d’aste Sotheby’s di Londra alla Procura di Roma, relativa all’attività della società Edition Service di Medici, abbiamo scoperto un sistema di riciclaggio attivo da anni, con la complicità di due figure di rilievo della casa d’aste.

Ogni reperto archeologico ritornato è un frammento di giustizia. A Villa Giulia sono state esposte anche verità, non solo reperti. Ma quanto c’è, in quelle sale, del vostro lavoro dietro le quinte? 

Ho lavorato presso la Soprintendenza di Villa Giulia dal 1992 e successivamente sono stato assegnato come collaboratore all’ufficio diretto da Daniela Rizzo. Nel museo sono oggi esposti materiali restituiti da vari musei stranieri o provenienti direttamente dal sequestro Medici. C’è una kalpis del Pittore di Berlino restituita dal museo di Boston; un’hydria ceretana restituita dalla collezionista americana Shelby White; uno psykter attico dal Metropolitan Museum di New York; un candelabro e un tripode in bronzo della collezione Guglielmi restituiti dal Getty; un’hydria etrusca con il mito dei pirati tirreni restituita dal Toledo Museum of Art e un’anfora attica del Pittore di Berlino restituita dal Met. Tutti capolavori rientrati grazie all’intuito di Paolo Giorgio Ferri e al nostro intenso lavoro. A Villa Giulia sono esposti anche cinque piatti attici a figure rosse, parte di un rarissimo servizio di venti esemplari sequestrati a Ginevra. Incredibilmente, il servizio è stato diviso tra due Istituzioni, smembrando ciò che neppure il trafficante aveva voluto separare. Abbiamo ricostruito i percorsi di questi oggetti incrociando la documentazione sequestrata con cataloghi d’asta e mostre in cui erano apparsi. Per l’anfora attica del Pittore di Berlino e per il servizio di piatti attici ci sarebbe materiale sufficiente per scrivere un intero libro.

In un Paese dove le mostre sono spesso palcoscenici, l’anonimato istituzionale è una forma di pudore o che cosa?

Il rischio di protagonismo nel settore culturale è elevatissimo. Le scoperte archeologiche vengono spesso raccontate come in un film di Indiana Jones e nelle mostre sui materiali restituiti i reperti sono descritti come “capolavori” o “tesori” nel senso angloamericano, enfatizzandone il valore economico piuttosto che quello culturale. Sono pagine di storia che parlano del nostro passato. Quando queste pagine vengono cancellate da uno scavo clandestino, come avviene quasi sempre con i reperti restituiti, bisognerebbe almeno raccontare la loro storia recente: i traffici illegali, le indagini, la ricostruzione della loro provenienza. Quando chi ha realmente indagato nei meandri del traffico illecito, archeologi e forze dell’ordine, viene messo in ombra dal protagonismo altrui, provo dispiacere e amarezza.

Hai mai sentito il bisogno di “alzare la voce” e rivendicare pubblicamente quanto hai fatto o pensi che, in questo ambito, il lavoro parli da sé e debba rimanere nell’ombra?

Molte volte ho desiderato essere presente alle conferenze stampa per chiedere, anche solo sottovoce: “Ma voi, oggi, cosa avete fatto per questi ritorni?”. Il caso dei materiali apuli restituiti da Berlino è emblematico. Avrei voluto “alzare la voce” verso chi si è intestato i meriti del buon esito, dimenticando che avevo pubblicato risultati, scritto al direttore del museo, parlato in convegni. Ma alla fine ha prevalso il buon senso. Chi si appropria dei meriti altrui e nasconde nomi o falsifica citazioni bibliografiche si squalifica da solo. Ho continuato a scrivere, a parlare in conferenze, nella speranza che qualcuno, anche al di fuori degli addetti ai lavori, ricordi il nostro contributo. Per ottenere questi risultati, serve il lavoro di tutti: solo unendo competenze diverse si raggiungono grandi traguardi. Ferri e Conforti lo avevano capito e costruirono gruppi coesi, fatti di archeologi, storici dell’arte, restauratori e militari delle forze dell’ordine, uniti, senza prevaricazioni. Il Generale Conforti non avrebbe mai accettato quanto accaduto dopo il suo pensionamento: l’omissione dei nomi di chi ha veramente lavorato.

Se potessi riscrivere la storia di questa restituzione, quali nomi aggiungeresti ai ringraziamenti? 

Oltre al mio, vorrei ricordare i nomi di Paolo Giorgio Ferri e Roberto Conforti, che crearono uno staff straordinario. I giornalisti del Los Angeles Times Jason Felch e Ralph Frammolino, che scoprirono un documento fondamentale. Il prof. Luca Giuliani, allora al museo di Berlino, con cui ho avuto diversi contatti e che conosceva la mia ricerca. L’addetto alle comunicazioni della Polaroid S.p.A., di cui non ricordo il nome, ma che mi fornì la prova decisiva. E infine i militari dei Carabinieri e della Guardia di Finanza che hanno lavorato con noi, ognuno contribuendo con le proprie competenze.

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