Quale futuro per il patrimonio culturale se ONU-UNESCO perdono terreno?

Ora che l’ONU ha smesso sostanzialmente di contare nello scacchiere planetario (193 membri, sede a New York), quale potere sovranazionale può avere l’Autorità per provare a disciplinare in terre che hanno storie, politiche, leggi e culture diverse, la preservazione del patrimonio culturale?

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Fino ad un decennio fa, anche grazie a iniziative iconiche come la designazione di Patrimonio Mondiale dell’Umanità, molti di noi occidentali credevamo che pur con tutti i suoi limiti che gli vengono imputati, l’UNESCO, quale istituzione interna all’Organizzazione delle Nazioni Unite con sede a Parigi, potesse essere quel sottilissimo viadotto attraverso cui approvare convenzioni che cucissero gli ordinamenti giuridici nazionali dei singoli Stati firmatari su una base comune che riguarda il patrimonio. I Patti dell’ultimo mezzo secolo (dalla Convenzione UNESCO del 1972 alla Convenzione UNIDROIT del 1995 alla recente Convenzione di Faro) oscillano grossomodo attorno a questi principi chiave: ci sono luoghi nelle terre di ciascuno di valenza storico-artistica, simbolica o spirituale così rilevanti che occorre far di tutto per non colpirli nelle guerre ed essere conservati in tempo di pace; durante un conflitto non si può fare razzia dei beni delle parti in causa; il mercato internazionale di oggetti saccheggiati viene disincentivato dalla documentata riconsegna del materiale al proprietario detentore e grazie a forze dell’ordine, coordinate sovra-nazionalmente, tale traffico viene gradualmente combattuto e avversato. 

Bene. Questa base era soltanto l’inizio di una tramatura di principi e ordini giuridici che, a fatica, taluni Stati firmatari si stavano dando, pur con tutte le difformità delle loro rispettive normative sovrane: in tale contesto, l’Italia poteva rivendicare un suo ruolo assai specifico, avendo una tra le più antiche e stratificate legislazioni sulla tutela. 

Poi però dalla fine della pandemia ad oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, con l’evidenza economica con cui si stanno imponendo Cina e alcuni Stati arabi, con il riaccendersi del conflitto con Israele, abbiamo visto che il ruolo dell’ONU nelle contese internazionali si è dimostrato progressivamente più aleatorio. 

Ma quei principi vengono meno? A livello teorico, no. Ma chi li applica? Sempre in linea teorica, tutti quanti i firmatari delle suddette Convenzioni. Ma chi ha l’autorità riconosciuta – adesso – per verificarli sul campo, oltre che sulla carta? Concretamente nessuno, se pensiamo che la Russia ha avuto, pochi mesi fa, il turno di presidenza del Consiglio ONU ed è la stessa Russia che, tra l’altro, oltre a fare e subire tanti morti, ha bombardato senza battere ciglio la cattedrale della Trasfigurazione di Odessa in Ucraina. È difficile, realisticamente, durante un conflitto dire: “scannatevi, ma conservate il patrimonio”. Sarebbe una chiacchiera richiederla anche nella fossa comune mediorientale. 

Dunque? A fronte della generale impotenza dell’ONU-UNESCO, che facciamo? Organizziamo conferenze internazionali che finiscono nel nulla, come quelle sul clima e sui cambiamenti ambientali? No. Se il mondo è ancora una terra troppo estesa da “convenzionare”, almeno per il patrimonio possiamo però farlo in Europa. Il contesto europeo è tutt’altro che una terra “conquistata” dall’idea condivisa di tutela, come le Convenzioni vorrebbero che fosse negli Stati firmatari. 

Ci sono elezioni europee importanti alle porte. Qualcuno parla dell’arte e del patrimonio culturale? Finora no. È considerato argomento da salotto. Direte: non è a rischio, ci sono questioni assai più rilevanti da affrontare, come l’immigrazione, le politiche energetiche, l’invio di armi nelle guerre altrui. Ma un continente come l’Europa che vuole costruirsi su Stati membri e competere con Usa, Cina, Russia, India, Stati arabi e altre forze egemoni, deve farsi carico della costituzione simbolica e spirituale del proprio stare al mondo. Senza questo momento “costituente”, che chiama inevitabilmente il patrimonio culturale di ciascuno Stato, continueremo come oggi: continueremo ad avere i singoli Stati membri che fanno moneta condivisa, ma non riconoscono nient’altro che li accomuna se non la vicinanza geografica, che è assai poco per creare, nelle piaghe del mondo odierno, un destino comune. 

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