(Tempo di lettura: 5 minuti)

Sarebbe un errore pensare che la scienza renda artisti, piuttosto fornisce loro la più valida assistenza (A.D.J. Quetelet).

Quando si parla di beni culturali con riferimento al Bel Paese, si tende, inevitabilmente, a evidenziare la qualità e la quantità di bellezze artistiche, architettoniche e paesaggistiche che ci circondano e costituiscono il patrimonio culturale nazionale, fondato su pilastri identitari e di civiltà. Tuttavia, conosciamo davvero la consistenza di questo immenso e variegato patrimonio?

In effetti non è un’operazione semplice catalogare il patrimonio culturale, secondo criteri scientifici, in conformità alla legge e, soprattutto, in termini di trasparente lettura e condivisione dei dati. Questa esigenza di ordinare ed elencare si fonda sulla necessità di esercitare correttamente l’azione di tutela, che è una prerogativa dello Stato. Difficile, se non impossibile, prendersi cura di qualcosa di cui si ignora l’esistenza e/o su cui si hanno scarse informazioni. Abbiamo contezza della rilevanza di questa peculiare attività solo quando, purtroppo, ci confrontiamo con le emergenze: i conflitti, le calamità ambientali e altri eventi sfavorevoli che mettono a repentaglio i beni culturali. Eventi che, negli ultimi anni, sono in aumento in modo evidente ed esponenziale.

La catalogazione dei beni culturali è normata dal Codice dei Beni Culturali, segnatamente dall’art. 17, che stabilisce i criteri per l’organizzazione e l’aggiornamento del catalogo nazionale dei beni culturali. Materia che riguarda in primis lo Stato e gli enti pubblici territoriali, in particolare le Regioni (Segretariati Regionali). Un’organizzazione questa che è l’evoluzione di un sistema originatosi nel 1893 e che ha dovuto tenere conto del cambiamento e adottare nuovi e più aderenti strumenti di tutela nel corso del tempo, fino all’istituzione, nel 1975, dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) in seguito alla creazione del Ministero dei Beni Culturali.

Attualmente l’ICCD è un Ufficio del MiC dotato di autonomia speciale, in conformità all’art. 33 DPCM 2/12/2019 n. 169. Nella sfera di competenza specifica, coordina le soprintendenze territoriali del MiC, chiamate a effettuare la catalogazione nel Sistema informativo generale del catalogo (SIGECweb).
I compiti dell’Istituto assolvono a due funzioni fondamentali, che confluiscono nella compilazione materiale delle numeroso tipologie di Schede del Catalogo:
– regolativa e di valorizzazione, attraverso l’individuazione dei beni culturali ai fini di tutela;
– erogazione di un servizio pubblico, finalizzato a far conoscere il patrimonio culturale.

Inoltre è di particolare importanza l’interconnessione con il censimento del patrimonio culturale ecclesiastico, coordinato dalla CEI e svolto dagli Uffici culturali a livello diocesano, nonché la convezione firmata con la Fondazione per i beni culturali ebraici in Italia (2015). Questo assetto dovrebbe garantire, nel rispetto della titolarità dei rispettivi sistemi operativi, e dei dati di riferimento in essi censiti, la condivisione degli aggiornamenti delle banche dati mediante specifici protocolli di interoperabilità. Detto ciò è doveroso porsi qualche interrogativo. Sono sufficienti le risorse umane, finanziarie e tecnologiche per garantire al meglio questa peculiare attività? È possibile migliorare l’interoperabilità di questo sistema di catalogazione coinvolgendo altri enti/organizzazioni? Come può la tecnologia migliorare questo processo di conoscenza?

Andiamo per ordine.

Purtroppo è risaputo che le soprintendenze soffrono di carenze organiche che si trascinano ormai da anni. Il concorso che si è appena chiuso prevede, su tutto il territorio nazionale, 20 posti per funzionario archeologo. Inoltre il reclutamento di un contingente di 518 unità di personale non dirigenziale a tempo indeterminato per il MiC. Nel contesto è stato previsto l’impiego futuro di: 268 Archivisti di Stato, 130 Bibliotecari, 15 Restauratori/Conservatori, 32 Architetti, 35 Storici dell’Arte, 8 Paleontologi e 10 Demoetnoantropologi. Da quanto risulta, non più di un funzionario per soprintendenza, oltretutto gravato da altri incarichi, si occupa di catalogazione, di questo settore così delicato: le forze in campo appaiono decisamente esigue rispetto all’esigenza specifica. La mole di materiali da schedare e aggiornare è notevole. La compilazione delle Schede, stabilita dalle norme ministeriali, passa attraverso gradi di approfondimento: inventario, precatalogo e catalogo, con l’aggiunta di Moduli specifici, come ad esempio quello per l’inventariazione patrimoniale (MINP). Ciò comporta un impegno gravoso sia in termini di energie spese, umane ed economiche, sia in termini di tempo necessario al suo compimento. Non meno problematiche sono le questioni connesse alle richieste di finanziamento per l’attuazione di linee progettuali specifiche anche con riferimento alla possibilità di attingere ai fondi del PNRR. Peccato che il nostro sistema burocratico, come è emerso in varie occasioni, salite agli onori della cronaca, non sia ancora del tutto in grado di presentare progetti idonei, soprattutto per mancanza di studi propedeutici: il settore cultura non fa eccezione.

A ciò si somma anche la difficoltà, da parte del personale amministrativo, nello stilare i format di richiesta di adesione alle linee progettuali definite a monte, sia che si tratti di bandi EU sia di altri enti o fondazioni. Questi progetti prevedono infatti la compilazione periodica, per tutta la durata del progetto, di report e rendiconti che implicano l’impiego di personale ad hoc, ovvero di agenzie esterne private specializzate che vanno remunerate.

Di cruciale importanza, in questo senso, il piano di digitalizzazione del patrimonio culturale che si dovrebbe concludere nel 2026. Per questa operazione sono stati stanziati 500 milioni di euro a fondo perduto. A livello più ampio, si potrà inoltre ricorrere eventualmente, al recovery fund che l’UE ha riservato ai 27 paesi membri, tra cui l’Italia, e che potrà disporre del 20% delle somme destinate per finanziare la ripresa digitale.

Probabilmente le risorse economiche sono adeguate, ma difetta la possibilità di utilizzarle in pieno anche per mancanza di infrastrutture digitali. Si pensi all’accesso alla banda larga e alle capacità informatiche degli appartenenti alla pubblica amministrazione che non hanno la concreta possibilità di potersi aggiornare in un ambito dove il progresso è rapidissimo. È il problema legato al fenomeno del digital divide che va assumendo proporzioni preoccupanti. Secondo i dati dell’ISTAT (inizio 2023) è emerso ad esempio che il 60% dei residenti del Mezzogiorno ha difficoltà ad accedere a una connessione Internet veloce.

Un altro aspetto da considerare riguarda l’interoperabilità del sistema catalogazione, ovvero la possibilità concreta di poter accedere alle Schede in relazione ad altre banche dati. Sarebbe da valutare seriamente, ad esempio, la possibilità di far dialogare il sistema SIGECweb con la Banca Dati dei Beni Illecitamente Sottratti, che è istituita presso il MiC, come stabilito dall’art. 85 del Codice dei Beni Culturali. Come noto questo strumento, che ha una spiccata valenza investigativa, è gestito di fatto dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Certamente l’aspetto investigativo comporta la necessità di porre particolare attenzione al trattamento dei dati sensibili in relazione anche al segreto istruttorio. In questo senso sarebbe necessario adottare anzitutto un sistema di schedatura integrata dei beni e un vocabolario termini specifici condiviso, utilizzando ad esempio quello già codificato da ICCD, in maniera di favorirne l’utilizzo ai vari livelli istituzionali. È fondamentale pervenire a una fruizione che contemperi le esigenze di tutela e catalogazione con le attività preventive e repressive delle agenzie di sicurezza. In questo ambito è maturata la convinzione di sviluppare il patrimonio informativo a livello di cooperazione internazionale: si pensi al progetto europeo Psyche – Protection SYstem for Cultural HEritage che ha contribuito alla creazione del data base Work of Art di INTERPOL.

A supporto di tutto ciò vi è la possibilità di valersi delle più sofisticate tecniche dell’intelligenza artificiale. Molto importanti in questo settore i progetti portati avanti da ESA-IIT nell’ambito del telerilevamento, molto utile per individuare, censire e studiare i siti archeologici con la possibilità di risalire al contesto, fino alla ricostruzione dei reperti sulla base dei frammenti (progetti CLS e REPAIR). Operazioni quanto mai fondamentali per stabilire la provenance dei beni culturali, che non può prescindere dal miglioramento e dal dialogo tra le varie banche dati e perciò da una preventiva e corretta schedatura dei beni in esse censibili. A livello metodologico è quanto mai strategico privilegiare un approccio multidisciplinare, basato su una collaborazione tra istituzioni ed enti di ricerca, tra professionisti di diverse discipline che possono mediare tra le varie istanze, per stabilire criteri e obiettivi condivisi.

Un lavoro certosino quello della catalogazione, prezioso e lontano dalle luci della ribalta, scevro da protagonismi ma fondamentale per tutelare davvero il patrimonio culturale. Anche in questo campo probabilmente è opportuno ossequiare una tradizione italiana che, a partire dal 1938, con Roberto Longhi, ha posto le basi scientifiche per creare una Scheda con i dati identificativi e più significativi del bene, accompagnati da una precisa e normata documentazione fotografica che, nel corso degli anni, ha assunto un ruolo centrale.

Vale ancora la locuzione verba volant, scripta manent ? La risposta non può che essere affermativa: dopotutto è cruciale testimoniare tangibilmente la nostra cultura e consegnarla, al meglio, nelle mani delle future generazioni.

Ultimi articoli

error: Copiare è un reato!