Marcel Duchamp e l’irresistibile tentazione di distinguere il vero dal falso: «una questione tecnica di incredibile stupidità»

Sono circa sessanta le opere in mostra, molte delle quali in prestito da istituzioni e collezioni pubbliche, europee e nordamericane, e private come quella di Attilio Codognato che ne ha concesse ventinove. Un’occasione unica per ammirarle tutte insieme alla “Boîte-en-valise”, I/XX edizione deluxe, acquistata da Peggy Guggenheim nel 1941 e appena restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure e Laboratorio di Restauro di Firenze

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I motivi, per recarsi in laico pellegrinaggio in visita alla Peggy Guggenheim Collection, ogniqualvolta ci si trovi a Venezia, non si contano: se «l’essenziale è invisibile agli occhi», qui si onora «l’utilità dell’inutile» nell’accezione esistenzialista di Nuccio Ordine.

Palazzo Venier dei Leoni, dimora prima e museo poi, è uno di quei luoghi del cuore che ha il potere di riallineare il sé con l’altro in una passeggiata immersiva di auto-arterapia. Quando l’affluenza e l’educazione dei visitatori – non sempre garantiti – lo consentono, il silenzio e l’eleganza del posto si mescolano all’audacia eccentrica, libera e ostinata della sua padrona di casa, lì sepolta, accanto ai suoi tredici adorati cani. Nell’introduzione di Una vita per l’arte. Confessioni di una donna che ha amato l’arte e gli artisti scrisse Alfred Hamilton Barr Jr.: «Il coraggio e l’intuizione, la generosità e l’umiltà, il denaro e il tempo, una forte consapevolezza del significato storico: sono questi i fattori dovuti sia alle circostanze esterne sia alle doti naturali che hanno fatto di Peggy Guggenheim un’eccezionale mecenate d’arte del ventesimo secolo. In un terreno scosso dallo spirito di fazione, lei è rimasta salda, non ha preso partito, ma ha combattuto soltanto per la rivoluzione che riteneva giusta» e quella rivoluzione ha coinciso spesso con la difesa, il mantenimento e la promozione di artisti, altrove incompresi, rifiutati e derisi, che hanno dettato i canoni del Novecento: la storia le ha dato ragione con i dovuti onori. E interessi.

La premessa è necessaria, non tanto per dipanare la matassa, professionale e personale, che legò Guggenheim alla sua scuderia, quanto chiave di lettura per attraversare – magari in punta di piedi – le sale che accolgono una mostra temporanea che ha tutte le caratteristiche per essere considerata la summa artistica di Marcel Duchamp all’interno di un evento doppiamente celebrativo: da un lato, protagonista, l’ironia iconoclasta e risemantizzante, autentica cifra duchampiana, e dall’altro, comprimario, il fiuto eterodosso e lungimirante di Guggenheim. Amici, sua collezionista e suo consigliere, uniti dall’avversione per ogni tipo di giudizio e da quel gusto provocatorio che li ha resi, oltre la loro epoca, icone.

Marcel Duchamp e la seduzione della copia non è solo un progetto espositivo sugli approcci creativi – e ossessivi – nel riprodurre le proprie opere, in diverse tecniche e dimensioni, ma è una retrospettiva sul cortocircuito che scatenò Duchamp tra sé e l’arte, gli artisti e il mercato: la replica e il multiplo contro l’originale e l’unico, e il ready made, «copie autentiche delle quali non esiste un originale», un terreno di ibridazione e sperimentazione dove l’artista «rifiuta categoricamente di seguire, sostenere o tollerare le radicate gerarchie culturali e commerciali che esaltano, persino feticizzano, gli originali artistici, mentre sminuiscono e vilipendono le riproduzioni di qualsiasi tipo». Duchamp si “spreta” nel 1918, smette di dipingere, rifiuta la definizione di “pittore” e la relazione pericolosa tra denaro e arte. Concettualmente e materialmente è «artigiano, archivista, catalogatore, curatore, stampatore, tipografo», e molto altro, di se stesso. Per un decennio gioca professionalmente a scacchi, una passione che si traduce in schema mentale, pratica artistica ed elementi della sua produzione.

«Mi piacciono le cose pure. Non mi piace l’acqua nel vino. E così ho fatto la mia vita». Parte da qui, dalla sua biografia e dalle «somiglianze di famiglia», l’ampia riflessione teorica contenuta nel catalogo di Marsilio Editori. L’ipotesi che il suo lavoro sia cibo per falsari non lo disturba: «Un falso è una forma di pubblicità. A meno che non sia tendenzioso. Sarebbe persino divertente andarlo a vedere», sostiene nel 1966, tanto più che «cercare di distinguere il vero dal falso, l’imitazione dalla copia, è poi una questione tecnica di incredibile stupidità», rincara l’anno seguente. «Duchamp resuscita la tecnica della stampa fotografica e della collotipia alla fine degli anni cinquanta, con il proposito di generare copie di alta qualità e facsimili della sua opera». A quel punto sono passati vent’anni dall’assidua e maniacale realizzazione di piccoli oggetti e di miniature delle sue opere per la serie della Scatola in una valigia – Boîte-en-valise, una sorta di «proprio catalogo ragionato sotto forma di retrospettiva accuratamente coreografata», numerata e personalizzata. Peggy Guggenheim si aggiudica il primo di venti esemplari della versione deluxe: a lui e al suo complicato intervento conservativo, eseguito recentemente presso l’Opificio delle Pietre Dure e Laboratorio di Restauro di Firenze, sono dedicate più sale. Mostra e saggi sono a cura dello «storico dell’arte e curatore indipendente Paul B. Franklin, che ha dedicato buona parte della sua carriera – si legge in prefazione – ad approfondire “le complessità e le idiosincrasie della produzione dell’artista”», lavorando in sinergia con l’Association Marcel Duchamp.

Marcel Duchamp e la seduzione della copia fino al 18 marzo 2024 presso la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, Dorsoduro 701-704. Aperta al pubblico tutti i giorni con orario continuato 10.00-18.00, tranne il martedì. Ogni domenica alle ore 11.00 è prevista una visita guidata, a pagamento, in lingua italiana. La prenotazione è vivamente consigliata.

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