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27 gennaio. Giorno della memoria. Tutti gli anni questa data ci sprona a compiere una riflessione e non solo a ricordare, doverosamente, le vittime dell’Olocausto. Tanti gli elementi che possono aiutarci a riflettere e tanti, ancora, i beni che con la loro presenza ci aiutano a farlo. I violini, ad esempio.

È nota la collezione dei Violins of Hope, i Violini della speranza, un gruppo di 88 strumenti ad arco che i liutai israeliani Moshe e Amnon Weinstein hanno sapientemente raccolto, restaurato e reso nuovamente sonanti. Moshe Weinstein, padre di Amnon, era nato a Vilnius e si era poi trasferito a Varsavia dove era diventato liutaio e violinista e aveva conosciuto la futura moglie, una pianista che lo accompagnava quando si esibivano nei cinema dove, come si usava a quei tempi, il “sonoro” dei film muti veniva creato al momento, con musica dal vivo. Entrambi ebrei, i coniugi Weinstein decisero nel 1938 di lasciare l’Europa e di andare in Palestina, allora sotto mandato britannico, scampando così ad una tragedia che cancellerà completamente le loro famiglie. Moshe aprì a Tel Aviv la sua bottega di liuteria e iniziò a lavorare con i musicisti della Palestine Orchestra.

Alla fine della guerra, un comprensibile cambio di sensibilità portò molti musicisti ebrei a sostituire i propri strumenti ad arco di fattura tedesca con altri, diciamo così… meno rimemorativi ed impattanti emotivamente. Comprensibile il gesto, carico di mille significati, che voleva rimuovere definitivamente tutto ciò che poteva in qualche modo ricordare ai musicisti ebrei quanto patito dal proprio popolo durante la Shoah. Moshe Weinstein, andando controcorrente rispetto al sentir comune, ritenne sacrilego distruggere degli strumenti musicali che a loro modo potevano ancora raccontare una storia, sebbene drammatica. Decise così di acquistarli, ad uno ad uno, formando quella che oggi è la Collezione della famiglia Weinstein, accresciuta nel tempo dal figlio Amnon, diventato anch’egli liutaio dopo aver frequentato la Scuola Internazionale di liuteria di Cremona negli anni Sessanta.

Questa storia di liuteria si accosta, sempre in termini di riflessione, al prestigioso scritto L’ordinamento criminale della deportazione vergato dal prof. Roberto Calvo, ordinario di Diritto privato presso l’Università della Valle d’Aosta, e pubblicato nei giorni scorsi da Laterza. Se da una parte i musicisti ebrei a guerra finita volontariamente decisero di liberarsi dei propri strumenti ad arco di fattura tedesca in Palestina, dall’altra furono altrettanto numerosi i musicisti e collezionisti ebrei che furono depredati dei propri strumenti musicali – e di molto altro… – dai Tedeschi durante il conflitto.

Il volume del prof. Calvo aiuta proprio a capire le radici politico-legali dell’Olocausto e come lo studio di questa vicenda storica meriti, tutt’oggi e nella nostra quotidianità, ancora una attenta riflessione in merito all’alternativa tra i valori universali e la concezione autoritaria del potere. «Il positivismo giuridico antivaloriale di matrice nichilista afferma che il diritto è valido in quanto approvato secondo le norme disciplinanti l’iter di produzione della legislazione. Tramite questa concezione formalista del diritto (si tratta di una forma che prevarica sulla sostanza e sulla natura delle cose), viene riconosciuta all’autorità politica una potestà legislativa discrezionale e pressoché illimitata e illimitabile. In altre parole, il giusformalismo declama che il diritto sia valido in quanto deliberato dagli organi legislativi ad astrarre da ogni valutazione contenutistica. Il giurista, quindi, è tenuto ad applicare la legge senza sindacarne il contenuto. Da detto modo di ragionare si dischiusero le porte alla legislazione razziale, una legislazione che pose la discendenza etnica a elemento che consentì di disconoscere i diritti naturali della persona a chi persona, secondo la legge amorale dello Stato-dispotico, non era siccome di sangue non ariano», sostiene il prof. Calvo. E quando vengono meno i principi che conferiscono la “sacralità” alla vita umana, il resto, in senso peggiorativo, non può che discenderne.

Alcuni anni fa una commissione di storici tedeschi pubblicò uno studio che mostrava come tra il 1933 e il 1945 il Ministero dell’Economia tedesco sia stato parte attiva del processo di annientamento, sotto il profilo finanziario, degli ebrei: inizialmente attraverso la tassazione e successivamente con la vendita dei beni depredati dopo la deportazione dei loro legittimi proprietari. In questo modo, secondo le leggi del tempo, fu possibile per le casse tedesche raccogliere denaro per coprire almeno il 30% delle spese di guerra. Il saccheggio dei beni ebraici non fu quindi un mero corollario della Shoah, ma un processo sistematico ad essa connesso. Questo il caso delle opere d’arte e di moltissimi violini di pregio sequestrati agli ebrei per andare ad arricchire la collezione personale di Hermann Göring o la raccolta selezionata dalla Sonderauftrag Linz, la Commissione speciale Linz istituita per individuare dipinti e sculture che avrebbero dovuto fare parte del Führermuseum, il museo che Hitler voleva realizzare nella città della propria giovinezza. Come scrive il prof. Calvo nel suo volume: «ragionando secondo la logica hitleriana del genocidio, alle vittime di esso sarebbe risultata inutile qualunque tipologia di bene, e quindi pure le cose necessarie al sostentamento minimale, essendo impossibile separare la privazione ai danni degli ebrei di ogni bene patrimoniale dalla minaccia diretta portata ora alla loro esistenza fisica. La perdita di capacità di essere soggetto di diritti e la collegata sottrazione dei diritti della personalità e pregiudizio degli ebrei offrivano la possibilità ai detentori del potere autocratico di considerarli pressappoco come una cosa […] in termini non dissimili la condicio personae dell’ebreo consentiva alla legge esteriormente valida e vincolante di sottrargli ogni ricchezza, in quanto il suo stato era oramai accostabile a quello di una res nullis». Fin dall’inizio, la dittatura nazista ha escluso gli ebrei dalla vita economica del paese attraverso lo «Judenboykott» – il boicottaggio dei negozi ebrei entrato in vigore il primo aprile del 1933 – e le depredazioni legate alle arianizzazioni forzate. In questo contesto, fino a che punto è anche lecito parlare di libera scelta nella vendita di un’opera d’arte o di un singolo strumento musicale o di una intera collezione organologica da parte di un proprietario ebreo?

La questione “delle restituzioni” è ancora aperta e sono diverse le cause ancora pendenti: si ricordino gli articoli recentemente pubblicati su questo tema specie per quei beni trasferiti forzosamente in altri Paesi dai loro legittimi proprietari, che speravano così di sottrarli alla confisca delle autorità naziste, poi venduti in non si sa quale modo e in forza di quali mandati.

https://www.journalchc.com/2022/11/04/violino-stradivari-lauterbach%ef%bf%bc/

Se da una parte il problema dei Tribunali oggi interessati da queste vicende è quello di stabilire se queste vendite – spesso perfettamente legali da un punto di vista formale – siano il frutto di una libera scelta da parte del legittimo proprietario oppure dipendano dalle condizioni difficili imposte agli ebrei dal nazionalsocialismo tedesco, la riflessione che il prof. Calvo ci aiuta a compiere è di natura diversa, più profonda e di ordine superiore, in questa giornata rimemorativa del 27 gennaio: «Serve rinnovare alla memoria, specie a quella dei giovani, che il potere politico non è emancipabile dalla sacralità dei diritti esistenziali dell’essere umano, indipendentemente da ogni rilievo di stampo etnico, religioso, sessuale, ecc. Solo avendo chiara tale intoccabilità è realisticamente possibile evitare che il male, che s’insidia di soppiatto nel disordine e nell’allarme generato dagli accadimenti inattesi, ridiventi autorità eletta a norma generale e astratta».

 

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