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Dal 21 Settembre 2023 il Parco Archeologico del Colosseo si è arricchito di un nuovo spazio espositivo che permette ai visitatori di immergersi ancor di più nella realtà archeologica: si tratta della riapertura, dopo decenni di chiusura, della Domus Tiberiana, così chiamata in base ad un’errata interpretazione data dal biografo antico Svetonio in merito a questo imponente edificio, considerato il primo vero e proprio Palazzo Imperiale qui realizzato.

Domus Tiberiana (Foto Emanuele Antonio MInerva).

Si può accedere alla Domus sia dal Foro salendo attraverso la rampa domizianea, seguendo quindi il percorso che anticamente era utilizzato dagli imperatori e dalla corte per arrivare alla loro residenza, oppure dalla parte alta accedendo dagli Horti Farnesiani e scendendo verso la rampa.

Scegliendo questo secondo percorso, il complesso attualmente visitabile si snoda lungo il clivus Victoriae dove si incontrano i primi ambienti che l’imperatore Adriano fece risistemare destinandoli a vari servizi (vendita al dettaglio, attività amministrative). Oltrepassati i primi ambienti, subito a sinistra la curiosità è attirata da un piccolo sportello in legno a chiusura di una finestrella che permette di ammirare una delle meraviglie che qui sono racchiuse. Si tratta di un affresco con un uccello e un ramo con limoni dalla cosiddetta “latrina del gladiatore”, nome dovuto al rinvenimento della figura di un gladiatore indicato con la scritta Ianuarius e databile all’età neroniana.

Si prosegue lungo il percorso in discesa del clivus, trasformato in via tecta, sempre da Adriano, con ampie arcate attualmente conservate per un’altezza di circa 30 metri. Su ambo i lati della strada si aprono degli ambienti, 5 a nord e 2 a sud, accessibili al pubblico.

Clivus Victoriae e ambienti adrianei (Foto Manuela Ferrari).

In una delle due sale poste sul lato Sud del vicus vi è una ricostruzione olografica del palazzo in epoca neroniana; nell’altra viene proposto un video nel quale è spiegato tutto il complesso lavoro interdisciplinare di indagini, studi e restauri che hanno portato alla riapertura in sicurezza della Domus. Questo secondo ambiente permette anche di apprezzare un’ulteriore sala sul fondo decorata con riquadri rossi ed elementi figurati su fondo bianco.

Ambiente con decorazioni affrescate nella sala multimediale (Foto Manuela Ferrari).

Gli ambienti presenti sul lato Nord della strada ospitano l’esposizione permanente Imago Imperii, una selezione dei materiali provenienti da questo complesso che permettono di ripercorrere la storia del sito attraverso i secoli. Le sale sono tra loro comunicanti e seguono un percorso tematico – sfera privata, religiosa, architetture e decorazioni – con reperti originali, ricostruzioni e materiali tattili.

Tra le opere esposte, degna di nota è sicuramente la statua di Pan, la prima che si incontra sul lato Nord accedendo dagli Horti Farnesiani e che introduce alla sezione espositiva: si conservano il torso e parte delle gambe, coperte di peli (elemento che ne ha permesso l’identificazione), era custodita nei depositi del Parco ed è databile alla prima età imperiale. Il soggetto ben si addiceva alla tipologia della parte della domus destinata a giardini e arredata con statue che si legavano al mondo agreste e dionisiaco.

Torso di Pan con testa recuperata dal CC TPC (Foto Manuela Ferrari).

Ad essa è stata attribuita una testa barbata rilavorata che si trovava negli Horti Farnesiani fino al 1968, quando venne trafugata per essere poi venduta attraverso i canali del traffico illecito di beni culturali. La testa era nota e venne subito censita nella Banca Dati Leonardo, strumento fondamentale utilizzato dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale ove sono raccolte tutte le informazioni riguardanti oggetti da ricercare. Grazie a questa catalogazione, quando il reperto venne messo in vendita in una casa d’aste in Colorado, fu possibile riconoscerla e dimostrarne la provenienza e l’uscita illecita dall’Italia. L’azione congiunta del CC TPC e della Homeland Security Investigations (HSI) statunitense ha portato prima alla confisca della testa nel settembre 2019 e poi al recupero definitivo ad opera della Sezione Archeologia del Reparto Operativo Carabinieri TPC di Roma il 21 ottobre 2019.

Proseguendo lungo la discesa del clivus si viene avvolti dalle notevoli strutture conservate in altezza: si possono ammirare le scale che permettevano di salire sulla sommità del Palatino, i piani terrazzati con pitture in IV stile pompeiano dai colori vividi e stucchi che ancora consentono di apprezzare, anche se solo in minima parte, le meraviglie che decoravano questo palazzo.

Suggestivo è il cosiddetto “Ponte di Caligola”, attributo a questo imperatore da Pietro Rosa sulla base di un passo di Svetonio (Cal. XXII) nel quale l’antico biografo diceva che “congiunse il Palatino con il Campidoglio attraverso un ponte che scavalcava il tempio del Divo Augusto”. L’opera è invece databile ad età domizianea; si conserva per circa 16 metri di altezza su due piani ad arcate, con transenne marmoree (integrate con restauri a fine Ottocento) ma anche scale e pavimenti a mosaico bianco e nero che caratterizzano gli ambienti voltati posti nel loggiato al piano superiore. In questa porzione sono anche conservati stucchi decorativi a tema geometrico, con cornici che dovevano imitare i cassettoni marmorei della zona di rappresentanza.

Pitture visibili sul Ponte di Caligola (Foto Manuela Ferrari).
Particolare del Ponte di Caligola con stucchi e transenne (Foto Manuela Ferrari).
Veduta del Ponte di Caligola e della via tecta dal Belvedere Palatino (Foto Manuela Ferrari).

La parte oggi restituita alla pubblica fruizione è solo una piccola porzione dell’intero complesso, seppur estremamente impressionante. L’intera residenza infatti occupava una superficie di circa 4 ettari ed era collegata al Foro lungo il versante del colle con sei livelli digradanti di costruzioni.

Augusto fu il primo a scegliere di vivere sul Palatino per il forte simbolismo che questo aveva per la fondazione della città, determinandone la radicale trasformazione che subì con i suoi successori, e che lo resero il colle imperiale residenziale per eccellenza. In questa porzione del colle doveva esserci anche la casa natale di Tiberio, nonché quella dove vissero Claudio e Caligola, che ampliò quella tiberiana. Questo suo intervento viene oggi considerato come l’inizio della trasformazione di ambienti separati che solo successivamente divennero un complesso unitario.

La fase più antica della Domus Tiberiana, sulla base delle evidenze archeologiche, non risale all’epoca tiberiana bensì a quella neroniana, quando l’ultimo esponente della dinastia Giulio-Claudia, dopo il devastante incendio del 64 d.C. che colpì anche qui, ne modificò la struttura per collegarla alla sua Domus Aurea. Le indagini hanno permesso anche di identificare una serie di strutture aristocratiche, databili tra il II secolo a.C. ed il I secolo d.C., che testimoniano le prime fasi di sfruttamento del versante Nord affacciato sul Foro e successivamente inglobate nelle varie trasformazioni (una porzione di pavimentazione a mosaico è visibile in una delle sale espositive).

Pavimentazione a mosaico pertinente a strutture repubblicane (Foto Manuela Ferrari).

Il palazzo continuò a vivere, nonostante la damnatio memoriae dell’imperatore: Domiziano apportò modifiche e continuò ad utilizzarlo anche se ormai, con la realizzazione della Domus Augustana, la residenza ufficiale era diventata un’altra. Ancora l’imperatore Adriano la utilizzò, apportando ulteriori trasformazioni. Interventi furono poi fatti anche da Commodo, a seguito di un incendio.

Un immondezzaio con materiali databili al V secolo, scavato recentemente, ha dimostrato una fase di abbandono di una porzione della domus, anche se i reperti al suo interno sono riferibili a derrate di pregiata qualità provenienti da quasi tutto il bacino del Mediterraneo.

Agli inizi dell’VIII secolo il complesso era, almeno in parte, ancora in buono stato se fu abitato da Papa Giovanni VII, il quale probabilmente preferì questa alle altre sedi imperiali per la sua particolare ubicazione rispetto alla Roma del suo tempo. Con il periodo medievale lentamente l’area venne abbandonata, come testimoniato da semplici sepolture databili dopo il XIII secolo. La proprietà passò successivamente in eredità ai Borbone che nel 1861, dopo aver trasportato buona parte degli arredi e delle opere d’arte a Napoli, la vendettero a Napoleone III.

Nuovi interventi si ebbero nel XVI secolo: nel 1542 il cardinale Alessandro Farnese, nipote di Papa Paolo III, acquistò i terreni sul lato Nord Occidentale del Palatino per crearvi la sua residenza, nota poi come Horti Farnesiani. L’antica domus venne in parte interrata ed obliterata per creare i nuovi giardini progettati dal Vignola nel 1564 e che, in parte, ricordano proprio gli antichi horti romani. Grazie a queste trasformazioni l’area tornò al suo antico splendore, riutilizzando numerose opere che originariamente appartenevano al complesso imperiale.

Con questo nuovo passaggio di proprietà si ebbe una fase di rinascita: l’area divenne oggetto sistematico di scavi proprio per volere di Napoleone, anche se solo nelle parti più periferiche dell’antico complesso. Per circa 10 anni Pietro Rosa ebbe la possibilità di scavare, riportando alla luce tutta il clivus e progettò un primo sistema di fruizione per il pubblico con dei pannelli esplicativi e l’esposizione delle opere rinvenute durante gli scavi.

Dopo l’Unità d’Italia Napoleone III vendette l’area al Governo Italiano e successivamente furono Rodolfo Lanciani e Giacomo Boni a proseguire le indagini, riuscendo a riportare alla luce una nuova porzione di vita. Gli interventi di Rosa, Lanciani e Boni se da una parte furono fondamentali per la conoscenza storico archeologica di questo complesso, dall’altra furono anche le prime cause di dissesti e crolli nella porzione settentrionale rivolta verso il Foro.

Importanti interventi di restauro furono realizzati già alla fine degli anni Cinquanta del Novecento ma nel 1970 un crollo, allora inspiegabile, delle murature portò alla chiusura del sito al pubblico. Per anni si è cercato di capire che cosa fosse successo e solo con l’ultimo progetto multidisciplinare, iniziato nel 2006, si è riusciti a trovare la causa nelle infiltrazioni d’acqua e a trovare il modo di risolverlo. Ci sono voluti anni per eliminare il problema, impermeabilizzare tutti gli spazi, ricostruire le porzioni crollate e consolidare il tutto, ma il grande lavoro di equipe ha permesso di riaprire alla pubblica fruizione e in totale sicurezza gli ambienti porticati lungo il versante settentrionale del colle.

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