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Il mare è l’immensa riserva della natura: da lui, per così dire, ebbe origine il globo;

e chissà, forse anche con lui avrà fine.

J. Verne

Viviamo su un pianeta la cui superficie è occupata per più del 70% dal mare. Noi Italiani abbiamo il privilegio di abitare una penisola dove questo elemento ha espresso un’influenza enorme sulla storia culturale nostra e dell’intera umanità. Eppure sappiamo ancora poco su questa sconfinata e profonda distesa blu cangiante. Quali meraviglie naturali e quanti tesori custodisce tuttora nell’oscurità dei suoi abissi. Quante testimonianze del passato sono celate sul fondo, nell’attesa di essere illuminate o forse semplicemente scoperte con discrezione, con il dovuto rispetto o meglio con un tocco di sacralità, che a volte è di rigore.

Il Mare Nostrum in questo senso rappresenta un unicum, uno scrigno di ricchezze e di reperti ancora da svelare e studiare. Vi è da dire che i nostri avi si sono impegnati parecchio in questo ambito, raggiungendo primati che purtroppo non si ricordano abbastanza. L’archeologia marina si è sviluppata in Italia, dove ha cominciato a muovere i suoi primi passi significativi a partire dai primi anni cinquanta del secolo scorso, con le ricerche del professor Nino Lamboglia, uno dei precusori di questa disciplina.


Nino Lamboglia (a sin.)

Il relitto di Albenga ha costituito l’esperienza iniziale con cui si è cominciato a coniugare il rigore scientifico con le rudimentali tecniche di scavo subacqueo. All’epoca non era di fatto possibile condurre immersioni se non valendosi dell’opera straordinaria dei palombari, che scandagliavano i fondali con la loro pesante attrezzatura, caratterizzata da uno scafandro collegato a una manichetta in cui veniva pompata aria dalla superficie. Esplorazioni non meno azzardate di quelle lunari, molto pericolose proprio perché l’incolumità degli operatori era esposta ai rischi fisici correlati anzitutto alla profondità.

L’esigenza di allora era di quella di prelevare le anfore adagiate sul fondo sabbioso a una quota batimetrica di circa quaranta metri. La scoperta di quel relitto risaliva ai decenni precedenti. Sono stati i pescatori del posto a essersene avveduti poiché spesso vi si incagliavano le reti. Dopo la prima campagna del 1950, condotta con la nave Artiglio, ne sono sono seguite altre nel 1961-1962 e nel 1970-1971 con rilievi e attrezzature più moderne, fino a stabilire che si trattava di nave oneraria di epoca romana, utilizzata quindi per il trasporto di merci, lunga 40 m e larga 12 m, in grado di trasportare circa 12.000 anfore (Lamboglia 2 e Dressel 1B) e altro vasellame ceramico.
L’esperienza fu illustrata in occasione del II Congresso Internazionale di Archeologia Sottomarina tenutosi nel 1961 proprio ad Albenga.

Da allora di passi in avanti ne sono stati fatti parecchi. L’immersione subacquea professionale ha smesso di essere un’avventura troppo rischiosa. La tecnologia ha permesso di avvalersi di attrezzature utili per garantire la sicurezza degli operatori e di strumenti per eseguire con più accuratezza anche le attività dei cantieri sottomarini.

La formazione degli operatori subacquei è sempre stata un fiore all’occhiello del nostro Paese e ha le sue radici nelle esperienze che la Regia Marina ha sviluppato a partire già nel secolo XIX, con le imprese dei palombari. Gli anni ’30 del Novecento e le campagne della II Guerra Mondiale hanno rappresentato un banco di prova per testare attrezzature quali pinne, maschere e mute, e soprattutto i respiratori a circuito chiuso alimentati a ossigeno (ARO). Gli anni ‘50 sono stati straordinari per il miglioramento di invenzioni quali l’erogatore per le bombole d’aria (ARA) e tutta una serie di accessori fondamentali: camera di decompressione, campana batiscopica, orologio a tenuta stagna, profondimetro e decompressimetro.

La formazione di operatori specializzati, fuori dai ranghi della Marina Militare, è stata inaugurata nel 1953. Luigi Ferraro MOVM e Duilio Marcante, pionieri dell’immersione, organizzarono i primi corsi di formazione per sommozzatori dei Vigili del Fuoco e dei Carabinieri (la prima forza di polizia al mondo a dotarsi di un reparto di operatori subacquei). Successivamente questi corsi sono stati estesi al Corpo della Guardia di Finanza e della Polizia di Stato.

I Carabinieri Subacquei, di cui quest’anno ricorrono i settanta anni della fondazione, sono stati gli antesignani nel condurre operazioni di assoluto rilievo in questo settore, oltre alle attività di polizia giudiziaria e soccorso, occupandosi del recupero di beni d’arte in occasione delle alluvioni di Firenze (1966) e Genova (1970). Nel 1969 hanno svolto ricerche e ritrovato reperti archeologici di grande valore nel mare di Napoli e a Villa San Giovanni (RC) dove fu recuperato il relitto di una nave greca. Nell’agosto 1972, a seguito dell’individuazione da parte di un sub amatoriale, si sono occupati del recupero dei due Bronzi di Riace. Sin da allora questa specifica attività continua in collaborazione con le Soprintendenze territoriali sia in mare che nelle acque interne.

Tuttavia bisognerà attendere fino al 1986 per l’istituzione del Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (STAS) presso il ministero competente. Ciò a seguito della frequenza di appositi corsi di abilitazione all’immersione subacquea dei dipendenti con diversa formazione e ruoli nell’ambito dell’amministrazione. Nell’ambito di questo servizio tecnico vanno certamente ricordate le figure dei compianti Claudio Moccheggiani Carpano e Sebastiano Tusa, che tanto hanno contribuito, nel corso dei vari incarichi ricoperti, alla crescita di questo settore con progetti e ricerche scientifiche di alto profilo.

Sebastiano Tusa e Claudio Mocchegiani Carpano (Foto: CMC-Centro Ricerche).

Dopo la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Mare (UNCLOS, 1982), l’Italia ha aderito alla convenzione UNESCO di Parigi del 2001, ratificandola nel 2009. In base all’art. 1 della Convenzione, per “patrimonio culturale subacqueo” si intendono tutte le tracce di esistenza umana, che presentano un carattere culturale, storico o archeologico e che sono sommerse, parzialmente o totalmente, periodicamente in permanenza, da almeno 100 anni, in particolare:
• i siti, le strutture, gli edifici, gli oggetti e i resti umani, nonché il loro contesto archeologico e naturale;
• le navi, gli aeromobili, gli altri veicoli o qualunque parte degli stessi, con il loro carico o altro contenuto, nonché il loro contesto archeologico e naturale;
• gli oggetti o reperti di età preistorica.

Con il DPCM 2 dicembre 2019 n. 169, è stata creata la Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo, con sede a Taranto, che cura lo svolgimento delle attività di tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale subacqueo nazionale. Va precisato che la Regione Sicilia, in virtù della propria autonomia amministrativa e finanziaria ha creato, già nel 2004, la Soprintendenza del Mare, che ha compiti di tutela, ricerca, censimento, vigilanza, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale sommerso dei mari siciliani e delle sue isole minori.

Parco archeologico di Baia, Ninfeo punta Epitaffio (Foto: Wikimedia)

È bene evidenziare che l’archeologia subacquea comprende vari ambienti e contesti spazio-temporali che non riguardano solo quello sottomarino, comprendendo fiumi, laghi, insediamenti sommersi portuali et alia. Questo tipo di attività, per essere davvero efficace, dovrebbe prevedere la piena sinergia tra la componente ministeriale e gli organi di controllo statali e regionali, in primis le forze di polizia specializzate, nonché l’aperta collaborazione con i vari enti di ricerca per portare avanti lo sviluppo di studi e progetti. Siamo ancora lontani perciò dall’assicurare un’incisiva tutela, tenuto conto che la sede centrale della Soprintendenza nazionale è ubicata a Taranto e coordina solo due distaccamenti a Napoli e Venezia: forse è un po’ poco se si considera l’estensione delle coste e una superficie di acque interne di circa 155.000 kmq.

La gestione della tutela deve coniugare l’aspetto della conservazione, che non può prescindere da un orizzonte multidisciplinare che tenga conto soprattutto della preoccupante insorgenza di fenomeni quali l’aumento dell’inquinamento delle acque, dovuto all’eccessiva antropizzazione, e i cambiamenti climatici. Una situazione che non sembra ancora sufficientemente considerata dalle politiche ambientali a livello planetario. In questa direzione si inserisce l’ambizioso progetto pilota per la Rete Mondiale dei Musei dell’Acqua (Global Network of Water Museums – WAMU-NET), collegato al Programma Idrologico Intergovernativo (IHP) dell’UNESCO, per la promozione e valorizzazione dei patrimoni culturali e naturali dell’acqua, nell’ambito dell’Agenda 2030.

Aleggia ancora il mistero di Atlantide? Aveva ragione Platone che la immaginava oltre le colonne d’Ercole? O l’indimenticato Jacques Cousteau, che ne ha cercato vanamente le tracce per anni nel Mar Mediterraneo?

È uno stimolo ulteriore, di natura intellettuale. Basterebbe forse indagare con più attenzione sotto il nostro naso, nel nostro mare per ritrovare ancora testimonianze del passato, per riscoprire le radici di un antico spirito democratico che è fondamento della nostra civiltà. Del resto, le talassocrazie, a partire dalla civiltà minoica fino alle repubbliche marinare, hanno segnato il destino del Mare Nostrum per più di tremila anni.

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