Il Tesoro conteso. Alcune considerazioni sulla provenienza del “Trapezophoros” di Ascoli Satriano

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Ascoli Satriano è l’antica Ausculum, un centro nato in epoca pre-romana su un’altura prospiciente il Tavoliere delle Puglie, nell’estremo sud di quella che oggi è la provincia di Foggia. Intorno, il paesaggio dei monti Dauni fatto di campi coltivati, uliveti, colline ricoperte da foreste rigogliose, corsi d’acqua, antichi casali e torri.

All’inizio del primo millennio a.C., gli Iapigi, una tribù degli indoeuropei Illiri che all’epoca erano stanziati nel nord della penisola balcanica, giungono via mare in questa zona, mescolandosi alle genti che già vi abitano. Fra le culture discese da questo iniziale stanziamento, i Dauni si stanziano nella Puglia settentrionale.

Dal IV secolo a.C. la ricca civiltà daunia assorbe gli influssi del mondo ellenico e poi della civiltà romana: nascono grandi ville e un santuario; la necropoli già esistente si allarga. 

Nel 1995, in seguito ai numerosi ritrovamenti, nasce il Parco Archeologico dei Dauni, che ancora oggi nasconde autentici tesori, quelli sfuggiti all’avidità degli scavatori clandestini. Savino Berardi era uno di loro. Egli ebbe, tuttavia, un ruolo determinante nell’individuazione del cosiddetto “Tesoro di Ascoli Satriano”, dal momento che qualcosa lo convinse a condurre gli investigatori sul luogo dove molti anni prima aveva portato a termine uno dei suoi tanti scavi non autorizzati: esattamente in quell’area dove dichiarò di avere ritrovato la preziosa coppia di Grifoni in marmo da tutti conosciuta come il Trapezophoros

Arrestammo il Berardi in occasione dell’operazione nota come “Gerione”, fu durante il processo che si svolse a Santa Maria Capua Vetere che il Berardi mi avvicinò per raccontare come si svolsero i fatti dello scavo dei Grifoni. Berardi voleva infatti parlarmi di una famosissima coppia di grifoni, da anni in bella mostra presso il prestigioso Getty Museum di Malibu, in California. Quei grifoni, confessò il tombarolo, li aveva trovati a pochi chilometri da lì e li aveva venduti a un trafficante di cui però si rifiutò categoricamente di fare il nome. Non era un delatore, dichiarò con fierezza. Io gli feci notare che, specialmente dopo tanti anni, quella dichiarazione avrebbe avuto ben scarso valore per riportare il Trapezophoros in Italia mai lui mise subito in chiaro che non aveva alcuna intenzione di fornire quelle informazioni. Se le cose stavano così, qual era il motivo di tutta quella messa in scena? Noi avevamo bisogno di prove e soprattutto non avevamo tempo da perdere! Berardi, con un sorriso triste, annuì. Di tempo a lui ne restava ancora meno e non mi aveva fatto andare fin lì per un capriccio. Lo andammo a trovare e dopo i convenevoli ci accompagnò nel Comune di Ascoli Satriano (FG) al km 2,5 della strada provinciale, loc. Giarnera Piccola. Qui raccontò la sua storia:

“Mi calai alla profondità di circa quattro metri per ritrovarmi in un ambiente piuttosto ampio, una specie di grossa stanza. Con la torcia faticavo a scorgere le pareti ed ero consapevole del rischio che stavo correndo: da un momento all’altro mi sarebbe potuto crollare tutto addosso e quella enorme cavità sarebbe diventata la mia, di tomba. Il buon senso mi diceva di farmi tirare di nuovo su in tutta fretta, ma allo stesso tempo qualcos’altro mi spingeva a continuare a guardarmi attorno. Con estrema incoscienza feci qualche passo finché non mi ritrovai davanti a una colonna. Era così grande che non sarei riuscito ad abbracciarla. Preso da una crescente euforia continuai ad andare avanti e finalmente il fascio di luce della mia torcia illuminò una scultura di marmo che, persino in quel buio, mandava riflessi di tutti i colori. Era la cosa più bella che avessi mai visto…”. Quando smise di parlare aveva le lacrime agli occhi e devo ammettere che anch’io avevo la pelle d’oca. Ripresosi dall’emozione, Berardi spiegò che portare la scultura in superficie fu un’operazione laboriosa e pericolosissima perché si verificarono diversi crolli. Nonostante il pericolo, qualche giorno dopo, decise ugualmente di calarsi ancora nella buca per tirare fuori altri pezzi. Alla fine aveva recuperato una coppia di grifoni nell’atto di mordere un cervo, un bacile rituale (podanipter) e altri pezzi minori, ma tutti appartenenti allo stesso complesso e del medesimo splendido marmo policromo. Vendette il Trapezophoros e il podanipter, ma i pezzi minori li tenne per sé: una prassi consolidata tra i tombaroli che in questo modo hanno un’arma di ricatto verso i compratori o possono tentare di rivenderglieli successivamente. In gergo vengono chiamati “orfanelli”. A questo punto venne spontanea la domanda: dove sono questi pezzi? Berardi ci disse che, qualche tempo dopo, forse in base a una soffiata, la Guardia di Finanza fece una perquisizione a casa sua e li sequestrò arrestandolo per detenzione illegale di reperti archeologici. “Se li trovate avrete le prove che cercate”, concluse. Poi, con le lacrime che ancora gli rigavano il volto scavato dalla malattia, Berardi mi poggiò una mano sulla spalla e, con voce accorata, aggiunse una frase che non scorderò mai: “So di aver commesso un crimine enorme e ora che sono prossimo alla fine non voglio morire con questo peso sulla coscienza. La prego maresciallo Lai, riporti il Trapezophoros in Italia e faccia che possa andarmene in pace”. 

Qualche tempo più tardi con il collega Morando ci recammo alla pretura di Foggia in cerca della documentazione sul sequestro effettuato a casa di Savino Berardi. L’ufficio stava per chiudere ma trovammo un collega, il maresciallo Foglia, che si offrì di darci una mano. Prima di tutto, disse, bisognava cercare nella bandetta, un enorme faldone di fogli di carta leggerissima sul quale, prima dell’avvento dei computer, si teneva l’elenco di tutti gli arresti effettuati. Era ormai notte fonda quando trovammo quella relativa a 30 anni prima, ma con nostra grande soddisfazione il procedimento a carico di Berardi saltò fuori. Non riuscimmo a trattenere un’esclamazione di trionfo. La successiva tappa fu la Pretura di Orta Nova, dove risultava essere stata archiviata la documentazione che tanto cercavamo. Ci attendeva però una brutta sorpresa: gli uffici non esistevano più. Gli archivi erano stati stipati in un container e portati alla nuova pretura di Cerignola. Qui finalmente trovammo il container ma quando lo aprimmo per poco non ci prese un accidente: davanti a noi c’erano centinaia di faldoni tanto malridotti da essere buoni solo per il macero. Malgrado polvere e muffa, ci mettemmo immediatamente al lavoro: non avevamo certo intenzione di mollare. La nostra determinazione venne premiata, perché dopo ore di ricerca e starnuti scoprimmo che i reperti sequestrati dalla Finanza a Berardi erano custoditi nel palazzo comunale di Foggia.  La statale 16, che collega Cerignola al capoluogo, è un rettilineo di circa quaranta chilometri e lo percorremmo a tempo di record. Una volta arrivati al Comune ci venne detto che i locali adibiti dalla soprintendenza a deposito erano collocati nel sottotetto. Lo raggiungemmo facendo le scale due a due e finalmente, coperte di ragnatele e rosicchiate dai topi, trovammo una serie di casse i cui cartellini ingialliti dal tempo indicavano “Sequestro Berardi”: bingo! Le aprimmo col cuore in gola trovando in tutto 19 grossi pezzi di marmo. Con un panno umido eliminai la polvere e la luce della preziosa pietra multicolore dai riflessi cristallini venne fuori in tutto il suo splendore. Berardi aveva detto la verità, tutte le dichiarazioni avevano avuto un riscontro oggettivo. Nonostante la malattia, infatti ci aveva portato ad Ascoli, località Giarnera Piccola per ben due volte. Dopo la morte del Berardi, il figlio, sollecitato dal Comandante del Nucleo TPC di Bari ci riaccompagnò nello stesso luogo, strana coincidenza, considerato che noi avevamo riferito di non ricordare esattamente il luogo indicato dal padre. 

Tutte le informazioni rese dal Berardi hanno avuto puntuale riscontro.

Il 5 agosto del 2021 ho partecipato insieme ai Colleghi del Reparto Operativo di Roma a un sopralluogo in località Giarnera Piccola, quella indicata dal Berardi, al fine di poter scambiare tutte le informazioni acquisite nel corso delle pregresse investigazioni e degli scavi archeologici eseguiti in quell’area. 

Nel sito oggetto di indagine da parte della Soprintendenza notammo un tumulo del diametro  di 30 metri circa che, in passato, era stato oggetto di aggressione da parte di scavatori clandestini. Lo scavo era in corso di esecuzione e, con esso, erano in corso studi e riflessioni per comprendere la destinazione d’uso di tale imponente opera. Gli archeologi presenti al sopralluogo avevano riferito che fino a quel momento non erano stati rinvenuti reperti riconducibili al corredo marmoreo di Ascoli Satriano. Di interesse, era stata rinvenuta una stella macedone che, in qualche modo, attenuava lo scetticismo legato al mancato rinvenimento di una tomba all’interno del tumulo che era l’ipotesi di partenza.

L’area in esame risultava seriamente devastata dall’incursione di mezzi meccanici, intervenuti probabilmente a più riprese. Durante la ricognizione di superficie organizzata congiuntamente agli archeologi nell’area circostante, grazie al netto contrasto con il colore del terreno, rinvenimmo facilmente un frammento marmoreo di colore bianco intenso. Il tondello misurava 4 cm circa di diametro, risultava di grana finissima, lavorato a mano, da una parte perfettamente liscio; l’aspetto dell’oggetto lasciava intendere una possibile pertinenza a un elemento marmoreo di dimensioni più grandi, ma sarebbe stata necessaria una comparazione con gli elementi già conservati al Museo di Ascoli Satriano. Il reperto venne affidato agli archeologi presenti al sopralluogo che successivamente effettuarono una prima comparazione con quelli pervenuti dal Getty Museum, ora in deposito presso il locale Museo.

Tenute in considerazione le dichiarazioni del Berardi, relative alla provenienza dell’intero corredo da Giarnera Piccola, sarebbe utile e auspicabile confrontare i marmi attraverso indagini archeometriche, petrografiche e geochimiche con il tondello di recente rinvenimento: forse si potrebbe dimostrare fra i due gruppi di reperti, se non una definitiva prova di pertinenza, quantomeno una stretta relazione.

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