La Guerra dei Marmi. Torna alla ribalta la questione Partenone

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Nella parte meridionale dell’Acropoli di Atene si apriva, agli occhi di un visitatore del V secolo a.C., uno spettacolo tanto unico quanto ineguagliabile: con 8 colonne frontali e 17 sui lati lunghi e con il suo splendido marmo pentelico dominava la scena il tempio dedicato ad Athena Parthenos, noto a tutti come “Partenone”. A catturare lo sguardo e suscitare ammirazione era soprattutto il finissimo apparato decorativo, costituito da 92 metope rappresentanti i più celebri miti greci: l’Amazzonomachia, la Gigantomachia, l’Ilioupersis (la caduta di Troia) e la Centauromachia. 

Il frontone orientale, il primo che si incontrava accedendo dai Propilei, narrava a tutti la “Nascita di Atena”, mentre su quello occidentale la dea protettrice della città vinceva la sua lotta contro Poseidone per il possesso dell’Attica. Attorno al naos (la cella) un fregio lungo 160 m scattava una specie di fotografia di una scena assolutamente reale: la processione delle “Panatenee” in onore della Dea, durante la quale le fanciulle le offrivano il sacro peplo. 

Queste sculture, vero e proprio capolavoro dell’arte classica, impreziosite da inserti di bronzo e ravvivate da colori come il blu e il rosso, sono state realizzate tra il 447 e il 432 a.C. da botteghe diverse, ma sotto il ferreo controllo di un unico regista: Fidia, uno degli artisti più noti ed apprezzati di tutto il mondo antico. 

Il destino, nel corso dei secoli successivi, non è stato clemente né con il tempio, né con le sue splendide decorazioni: danneggiato da un incendio nel IV secolo, fu poi trasformato in una chiesa cristiana nel VI; nel settembre del 1687, ancora, fu bombardato pesantemente durante l’assedio del Generale Francesco Morosini, che fece esplodere la polveriera che vi era stata installata all’interno. Enorme fu il danno a una gran parte della decorazione, che si era salvata dall’usura del tempo e dalle spoliazioni, fino a quel momento. 

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Agli inizi dell’‘800 Atene e la Grecia si trovavano sotto il dominio Ottomano e tra il 1799 e il 1803 Lord Thomas Bruce, VII conte di Elgin, membro di una nobile famiglia scozzese, fu nominato ambasciatore britannico presso il Sultano di Costantinopoli. Nel 1800 egli ottenne dallo stesso Sultano il permesso per effettuare sopralluoghi, rilievi e calchi sull’Acropoli. Giocando su un’errata interpretazione del decreto e facendo leva sul fatto che i soldati Ottomani stavano distruggendo marmi e statue per farne calce, Lord Elgin affittò una nave e nel giro di poco tempo fece portare via gran parte delle decorazioni dell’Eretteo, ma soprattutto del Partenone. Per dovere di cronaca bisogna anche ricordare che il grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, nella sua “Introduzione all’archeologia”, afferma che a dare il via a questa operazione non fu tanto Lord Elgin, in quel momento finito prigioniero di Napoleone, quanto il cappellano dell’ambasciata, il reverendo Philip Hunt.  

In ogni caso fu lo stesso Elgin che, oberato dai debiti, tentò immediatamente di vendere le opere al British Museum, che le acquistò solo nel 1816 e per di più ad un costo nettamente inferiore rispetto a quello richiesto: da allora alcuni tra i più eccelsi capolavori dell’arte greca sono esposti nel Museo, in una sala ad essi dedicata. 

Il pubblico britannico, per quanto ammaliato dalla bellezza dei marmi giunti a Londra, si mostrò sin da subito contrario all’azione di Elgin: scrittori come Edward Daniel Clarcke o Lord Byron criticarono aspramente quello che venne considerato un vero e proprio saccheggio. Ciononostante i marmi non furono restituiti. Anzi, fu ribadito sin da subito che l’operato di Elgin aveva salvato le opere dalla più che probabile distruzione, mettendole oltretutto a disposizione degli studiosi di tutto il mondo. La situazione che si venne a creare successivamente diede il via ad un importante contenzioso, tutt’ora non risolto. 

Negli anni ‘80 la Grecia, con il Ministro della Cultura Melina Mercouri, ha portato la questione in campo internazionale: tra le ragioni del diniego britannico alla restituzione, la prima fu l’esistenza di un decreto parlamentare del 1963 che vieta di alienare le opere del British Museum. A questo allora si aggiunsero anche motivazioni legate a problemi di conservazione per la mancanza di una sede adeguata, problema ormai risolto dopo l’inaugurazione del Museo dell’Acropoli. Solo dal 2014 l’UNESCO ha accettato di farsi mediatore tra i due Stati, per cercare la soluzione a questo caso. 

Ma oggi questa “guerra dei marmi” sembra essere forse arrivata ad un punto di svolta: il primo passo verso un grande cambiamento, è stato compiuto dalla Regione Sicilia. Una piccola parte di rilievo appartenente al fregio del Partenone, il cosiddetto “Frammento Fagan”, finì nel XIX secolo in possesso del console inglese Robert Fagan. Dopo la sua morte la moglie lo vendette a quello che oggi è il Museo Salinas di Palermo. Dal 10 gennaio esso è stato inviato in prestito al Museo dell’Acropoli dove, secondo le previsioni, sarebbe dovuto rimanere per 8 anni; nel frattempo però la Regione Sicilia ha avviato l’Iter per una restituzione definitiva. Questa decisione segna davvero una novità importante: quasi in contemporanea, in occasione della giornata internazionale dei Musei, celebrata il 18 maggio, l’UNESCO ha dichiarato che finalmente il vento sembra essere cambiato e che il Ministro della Cultura britannico si sta accordando con quello greco per organizzare un incontro, durante il quale si discuterà del futuro di questi capolavori. Già nel 2021 il Comitato dell’UNESCO si era espresso a favore della Grecia, rimettendo la decisione finale al Governo britannico. 

Che cosa accadrà adesso? L’Inghilterra riuscirà a dimostrare la legittimità del proprio acquisto? O si aprirà nel concreto uno spiraglio affinché le opere di Fidia possano tornare al luogo e al monumento per il quale furono realizzate?

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