L’insegnamento dei Buddha
Nessun altro piacere è più grande della pace
Siddhārtha Gautama
Le cronache provenienti dall’Afghanistan suscitano sconcerto e preoccupazione. Una reazione normale si direbbe, non disgiunta a una profonda indignazione, soprattutto se si pensa al futuro della popolazione afghana, in particolare delle donne e dei giovani che vivono in quei territori martoriati, dove i diritti fondamentali sono ben lungi dall’essere assicurati. Questi diritti violati, universalmente condivisi – è bene ricordarlo – non riguardano però solo gli individui, ma anche il patrimonio culturale. Ancora brucia la distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte del regime talebano proprio in Afghanistan, venti anni or sono.
Il concetto di patrimonio culturale comprende l’insieme dei beni culturali, delle abilità, conoscenze e tradizioni che una nazione o comunità ha appreso e ereditato dalle generazioni precedenti: determina quindi l’identità da trasmettere ai posteri. I primi trattati adottati sotto l’impulso dell’UNESCO, dopo il secondo conflitto mondiale, non contemplano il termine patrimonio bensì il termine bene culturale: si vedano la Convenzione dell’Aia del 1954 sulla tutela dei beni culturali in tempo di guerra e la Convenzione di Parigi del 1970 sulla prevenzione del traffico illecito di beni culturali. Nel 1972 l’UNESCO ha invece adottato il termine patrimonio in merito alla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale. Questo cambiamento è scaturito dalla necessità di uniformare il concetto di cultura e proprietà comprendendo anche i siti naturali di eccezionale valore universale. Un successivo e importante esempio è la Convenzione sul patrimonio subacqueo del 2001 in cui il concetto di patrimonio ha assunto la connotazione di eredità storica o artistica il cui valore e salvaguardia sono fondamentali per la tutela di un interesse pubblico a prescindere dal diritto di proprietà. Analogamente, con la Convenzione UNESCO del 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, il concetto di patrimonio è stato esteso, oltre la componente culturale degli oggetti materiali su cui vigono i diritti di proprietà, alle competenze e alle pratiche tradizionali che costituiscono l’eredità condivisa di una comunità e il fondamento della sua ‘cultura operante’. Questa definizione di patrimonio culturale nella pratica del diritto internazionale ha contribuito a rafforzare il legame, non solo a livello teorico, tra il patrimonio e i conseguenti diritti culturali. Questo aspetto è cruciale in quanto il patrimonio culturale è pensato come l’insieme dei saperi e dei beni accessibili tutelati dalle leggi. L’evoluzione del concetto di patrimonio implica che anche gli oggetti e i siti culturali debbano essere intesi nella funzione e nel ruolo che rivestono in un contesto sociale, quali strumenti indispensabili per l’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali.
Il principio per cui il patrimonio culturale fa parte dell’interesse generale dell’umanità è stato sancito nella Dichiarazione dell’UNESCO del 2003 sulla distruzione intenzionale del patrimonio culturale. La dichiarazione è seguita all’indignazione della comunità internazionale per la folle distruzione delle statue dei Buddha di Bamiyan, che erano parte del patrimonio storico afghano. L’evento divenne un caso internazionale. Le Nazioni Unite, l’UNESCO, l’Unione Europea e una parte degli Stati Islamici si mobilitarono per prevenirne la distruzione, salvo attivarsi concretamente solo a crimine compiuto. La condanna che è seguita è stata articolata non solo in termini morali e politici, ma anche in termini di legge, a tutela dell’obbligo che investe tutti i membri della comunità internazionale per preservare e proteggere il patrimonio culturale di rilevante importanza per l’umanità. Nel caso specifico, la distruzione è stata valutata come un attacco a un simbolo religioso e come un atto discriminatorio nei confronti dell’espressione tangibile di una tradizione culturale, in violazione del principio dell’uguaglianza dei diritti e della dignità di tutti esseri umani .
Si trattò di un evento epocale che ha segnato lo sviluppo dei diritti umani e dell’internazionalizzazione della responsabilità penale individuale per gravi violazioni oltre il genocidio, i crimini di guerra contro l’umanità e contro la pace. La legge internazionale infatti prevede attualmente l’incriminazione per reati gravi contro il patrimonio culturale. Anche i tribunali internazionali, in varie circostanze, hanno fornito un’interpretazione restrittiva dell’eccezione di necessità militare, rigettando il motivo secondo cui la mera vicinanza di istituzioni religiose o culturali a un obiettivo militare giustificherebbero il loro attacco. Vi è perciò il riconoscimento del legame tra beni culturali e diritti fondamentali per scongiurare la sistematica distruzione del patrimonio culturale di un dato gruppo etnico, nel caso in cui l’esistenza dello stesso non sia accettata in termini biologici, sociali e culturali.
La giurisprudenza ha contribuito a sollecitare la redazione dello Statuto del Corte Penale Internazionale che contiene disposizioni specifiche e sanzioni per la distruzione e il danneggiamento intenzionale del patrimonio culturale. La Dichiarazione dell’UNESCO del 2003 sulla distruzione intenzionale del patrimonio culturale è applicabile in tempo di guerra e di pace: è uno strumento di soft-law e non un trattato vincolante.
La tutela del patrimonio culturale, in ambito internazionale, non può essere separata dalla funzione sociale che essa assolve quale elemento simbolico del perpetuarsi di una società. Il pieno riconoscimento di questa dimensione umana ha contribuito a estendere il concetto di patrimonio al di là dei prodotti materiali della creatività, comprendendo l’aspetto più complesso di ‘cultura vivente’ che include le tradizioni, il vissuto sociale, i processi di gestione e produzione, l’evoluzione e la trasmissione del patrimonio culturale da una generazione all’altra.
La convenzione UNESCO del 2005 sulla diversità dei contenuti artistici e delle espressioni culturali porta ancora più avanti il processo, riconoscendo la diversità culturale come ricerca comune dell’umanità. In questo contesto, la nozione di patrimonio culturale diventa inseparabile dai diritti umani in due diversi modi. La difesa e la promozione della diversità culturale non possono essere slegate dai diritti umani e dalle fondamentali libertà delle minoranze, dei gruppi e dei popoli indigeni. La diversità non può essere invocata come scusante per limitare o violare i diritti umani garantiti dal diritto internazionale.
Insomma a parole scritte e pronunciate sembrano tutti d’accordo. Lo abbiamo sentito recentemente anche dal tavolo del G20 della Cultura al Colosseo: “Culture unites the world”. Vi sono tuttavia voci dissenzienti – vi sono sempre state, spesso provenienti dagli stati più influenti, come in occasione dell’adozione delle Convenzioni cui si è accennato. Queste voci, che limitano di fatto anche l’azione politica, afferiscono principalmente al sistema commerciale globale che, evidentemente, non si allinea al riconoscimento della creatività umana e della libera circolazione delle idee fondato sulle radici culturali e sulle tradizioni. Se non si riconoscono realmente le diversità, le varie tradizioni culturali e le espressioni artistiche, si rischia di scambiare l’infinita varietà dell’esperienza umana per un mero prodotto di consumo. Questo è un drammatico pericolo. Il diritto internazionale e interno, seppur utile, non è sufficiente: è un problema di coscienza che riguarda tutti noi. La cultura, non solo quella dell’Afghanistan, non può progredire senza libertà e pace.
Opinionista