L’estensione dell’applicazione della Convenzione UNTOC nel campo dei reati contro il patrimonio culturale
Dal momento che vi sono evidenti prove che le organizzazioni criminali svolgono un ruolo cruciale nel traffico transnazionale di opere d’arte e poiché quest’ultimo presenta consolidati legami con il traffico di droga e di armi, la violenza, la corruzione e il riciclaggio di denaro, le Nazioni Unite hanno tentato di rafforzare il quadro penale in materia di contrasto ai reati connessi al traffico di beni culturali optando per la valorizzazione della United Nations Convention against Transnational Organized Crime (UNTOC) del 2000, la c.d. Convenzione di Palermo, in particolare attraverso l’estensione dell’applicazione delle sue disposizioni di ampio respiro
La Convenzione di Palermo rappresenta uno dei più importanti strumenti di diritto penale internazionale e si pone l’obiettivo primario di promuovere la cooperazione tra gli Stati per prevenire e combattere più efficacemente la criminalità organizzata transnazionale tramite la previsione di standard legislativi idonei a eliminare le differenze tra i sistemi giuridici nazionali.
La sua straordinaria portata innovativa è stata confermata da un recente orientamento espresso dalle istituzioni della comunità internazionale. Sebbene essa non contenga alcuna specifica previsione normativa inerente ai beni culturali, lo UNODC ha dichiarato, a seguito di un processo evolutivo che ha avuto luogo sotto l’egida delle Nazioni Unite, che è effettivamente possibile applicare la Convenzione UNTOC per combattere i reati contro i beni culturali, con particolare riguardo ai gravi crimini transnazionali connessi al traffico di opere d’arte, e ha delineato un quadro di riferimento inerente alle norme della Convenzione direttamente applicabili ai suddetti reati.
Tali norme si possono raggruppare in diverse macrosezioni aventi ad oggetto, rispettivamente, l’ambito di applicazione delle norme convenzionali, i reati previsti dalla Convenzione, le norme idonee ad assicurare l’efficace svolgimento del procedimento penale e, in particolare, delle indagini e, infine, le norme che disciplinano la cooperazione internazionale in materia penale.
Ai sensi dell’articolo 3 (1), il quadro normativo previsto dalla Convenzione UNTOC si applica, anzitutto, alla prevenzione, l’indagine e l’esercizio dell’azione penale nel caso in cui sia stato commesso un “serious crime”, che il trattato definisce come una condotta che costituisce un reato punibile con la privazione della libertà personale per almeno quattro anni, nel massimo, o con una pena più grave – articolo 2 (b). Questo primo criterio garantisce che la Convenzione non venga utilizzata per punire attività criminali di minore rilevanza e, inoltre, incoraggia gli Stati ad aumentare le sanzioni previste dal loro ordinamento nazionale per i reati più gravi.
In secondo luogo, la Convenzione si applica quando il crimine è di natura transnazionale, ovvero nei casi in cui il reato venga commesso in più di uno Stato oppure venga commesso in uno Stato, ma coinvolga molteplici Stati per ciò che concerne la pianificazione, lo svolgimento delle operazioni del gruppo criminale o gli effetti sostanziali del crimine posto in essere – articolo 3 (2).
Un terzo elemento fondamentale che comporta l’applicazione della Convenzione è la commissione di tali attività illecite da parte di un gruppo criminale organizzato, che ai sensi dell’articolo 2 (a) della Convenzione viene definito, mediante un’ampia formulazione, come un gruppo strutturato di tre o più persone, esistente per un periodo di tempo prolungato e che agisce di concerto allo scopo di commettere uno o più crimini o reati gravi, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale.
Dall’analisi di queste prime norme fondamentali della Convenzione di Palermo traspare che l’interpretazione flessibile di ciò che rientra nelle suddette categorie è idonea ad assicurare che la Convenzione copra la più ampia gamma di forme tradizionali, emergenti e future di attività criminali e che gli sforzi di cooperazione internazionale siano intrapresi efficacemente sia nelle indagini sia nei processi penali pertinenti.
Tra i reati previsti dalla Convenzione UNTOC che risultano rilevanti in relazione al contrasto al traffico di beni culturali e ai crimini ad esso complementari, l’articolo 5 della Convenzione affronta il tema della penalizzazione della partecipazione a un gruppo criminale organizzato. La previsione di tale crimine risulta di centrale importanza per combattere il traffico di beni culturali dal punto di vista penale, dal momento che la natura di tale fenomeno criminale richiede la partecipazione di numerosi soggetti, che svolgono ruoli differenti e che pongono in essere una vasta rete di transazioni e interazioni.
Nello svolgimento delle loro attività, i soggetti che partecipano al traffico di opere d’arte tendono a creare gruppi criminali organizzati o ad operare in gruppi strutturati dove i compiti sono chiaramente divisi, al fine di commettere uno o più reati gravi di natura transnazionale. Penalizzando la partecipazione a un gruppo criminale organizzato, in conformità con gli obblighi previsti dalla Convenzione, gli Stati contraenti potrebbero ritenere tali gruppi come gli effettivi responsabili del traffico internazionale di beni culturali.
Un altro esempio di crimine applicabile ai reati contro il patrimonio culturale è quello previsto dall’articolo articolo 6 della Convenzione. Tale norma fornisce alcune previsioni normative sulla penalizzazione del riciclaggio dei proventi da reato, ossia di qualunque bene derivato o ottenuto, direttamente o indirettamente, attraverso la commissione di un reato.
In particolare, questa disposizione vincola gli Stati parte a sanzionare il trasferimento dei beni allo scopo di occultarne l’origine illecita o di aiutare chiunque sia coinvolto nella commissione del reato a sottrarsi alle conseguenze legali della sua azione. La norma, quindi, consente di punire l’occultamento della vera natura, fonte, ubicazione, cessione, movimento o proprietà dei beni di provenienza illecita nel caso in cui chi commette il crimine sia a conoscenza del fatto che questi ultimi costituiscono proventi di un crimine.
Per questi motivi, l’articolo 6 è applicabile nei casi di riciclaggio di beni culturali, coprendo qualsiasi azione volta a nascondere la vera origine di un bene culturale esportato, importato o scambiato illegalmente. Tale interpretazione estensiva consente di applicare questa norma anche in caso di falsificazione delle informazioni sulla provenienza dei beni culturali, deframmentazione o modificazione dell’aspetto del bene culturale in modo tale da nasconderlo, trasferimento del bene da un paese all’altro, vendita fittizia, conservazione del manufatto in un determinato luogo per un lungo periodo e falsificazione dei documenti finanziari per nascondere l’autentica provenienza del denaro guadagnato dal commercio di beni culturali.
L’applicazione dell’articolo 6 ai fini del contrasto del traffico di beni culturali dimostra che, per i musei, i collezionisti e le case d’aste, è importante attuare un controllo preventivo sulla provenienza degli oggetti d’arte, dal momento che essi, in ragione del fondamentale ruolo che ricoprono nel mercato dell’arte e dell’interpretazione estensiva del reato di riciclaggio dei proventi da reato, possono, da una parte, incorrere nella responsabilità penale (e ciò sarebbe consentito alla luce delle previsioni normative della Convenzione UNTOC sulla responsabilità delle persone giuridiche), dall’altra, contribuire a contrastare l’occultamento degli oggetti d’arte.
A completare il quadro dei reati di cui alla Convenzione di Palermo applicabili nel campo del contrasto dei crimini contro il patrimonio culturale intervengono, infine, l’articolo 8 – che vincola gli Stati parte ad adottare le misure necessarie a introdurre i reati di corruzione, attiva e passiva, e a punire la partecipazione dei soggetti che risultano complici nella commissione del reato di corruzione – e l’articolo 23 – avente a oggetto la penalizzazione dell’ostruzione della giustizia.
Il fatto che nessuna disposizione convenzionale possa pregiudicare il fondamentale principio secondo cui la descrizione dei reati in essa stabiliti, delle difese legali applicabili o di altri princìpi giuridici che controllano l’illiceità delle condotte sia riservata al diritto interno di ogni Stato parte è precisato da una norma specifica della Convenzione stessa, ossia l’articolo 11 (6).
Tuttavia, sono proprio le differenze tra gli ordinamenti nazionali che creano le maggiori problematiche in merito all’effettivo contrasto del traffico di opere d’arte e delle condotte criminali ad esso correlate.
La mancanza di una legislazione armonizzata avente ad oggetto tali reati rappresenta uno dei principali ostacoli all’effettiva protezione dei beni culturali da parte degli Stati della comunità internazionale e comporta il sorgere di alcune criticità.
In primo luogo, l’incongruenza nella definizione del medesimo atto illegale da parte di differenti ordinamenti nazionali rende difficile l’instaurazione della doppia incriminazione. Questo aspetto, ad esempio, emerge quando per uno Stato una condotta costituisce un furto, per un altro Stato costituisce traffico illecito di beni culturali.
In secondo luogo, l’applicazione al caso concreto della fattispecie penale relativa a un reato minore, come il furto, può comportare l’irrogazione di sanzioni insufficienti rispetto agli standard sanzionatori previsti per punire la medesima condotta qualificata come “serious crime” ai sensi della Convenzione UNTOC. In entrambi i casi, l’applicabilità della Convenzione e l’accesso ai suoi strumenti di cooperazione internazionale possono essere ostacolati.
Ciò che costituisce il principale impedimento alla piena armonizzazione delle legislazioni in relazione al principio della criminalizzazione del traffico di beni culturali è l’insieme degli interessi riconducibili al mercato dell’arte, di cui bisogna assolutamente prendere atto prima di intervenire in questo delicato campo normativo. Detto mercato si caratterizza per la sua riluttanza ad assoggettarsi ai controlli ordinari e a osservare le regole per la trasparenza degli affari, nonché per gli intrecci prettamente criminali che ne inficiano la sua natura.
Queste pulsioni intrinseche al mercato dell’arte costituiscono, perciò, il cardine delle difficoltà riscontrate nell’evoluzione del diritto internazionale e delle prospettive di cooperazione fra Stati, vista l’influenza delle lobby dotate di grandi risorse finanziarie e di sofisticate capacità di condizionamento delle scelte politiche, legislative e amministrative. Di conseguenza, i progressi conseguiti nel processo di armonizzazione delle legislazioni nazionali sono spesso legati al mero scandalo provocato da singoli casi eclatanti di evidente contaminazione criminale del mercato, più che dall’applicazione di vere e proprie politiche criminali idonee a intervenire in questo settore in modo esaustivo.
Ulteriori problemi che si potrebbero riscontrare in sede di applicazione dell’incisiva legislazione contenuta nella Convenzione deriverebbero dall’effetto prodotto da alcune norme convenzionali, che potrebbero comportare il generale innalzamento delle risposte sanzionatorie negli ordinamenti nazionali e il ricorso a strumenti di indagine, che in origine sono stati concepiti per contrastare forme di criminalità particolarmente gravi, anche nel caso in cui le istituzioni si attivassero nei confronti di reati che non necessitano di siffatta compressione delle libertà individuali.
In accordo con questa prospettiva, sarebbe dunque fondamentale un ricorso moderato e cauto agli strumenti più pervasivi, senza cedere incondizionatamente alle richieste di rafforzamento a tutto campo dell’arsenale repressivo che promanano dagli organismi internazionali.
Al fine di far fronte a dette criticità, sarebbe auspicabile promuovere la ratifica di un nuovo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione in oggetto che affronti in via specifica la prevenzione e la repressione del traffico illecito di beni culturali e dei crimini ad esso correlati qualora fossero commessi da un gruppo criminale organizzato, in modo tale da prevedere un’adeguata disciplina che tenga conto della differenza e varietà delle fattispecie penali e che possa graduare gli interventi penalistici senza risultare eccessivamente gravosa nei confronti dei reati di minor rilievo.
Senza dubbio, l’obiettivo primario da perseguire resta l’effettiva armonizzazione degli ordinamenti nazionali, che può avvenire solo attraverso una precisa identificazione degli oggetti da proteggere e degli elementi costitutivi dei reati. Per questo motivo, dal momento che gli Stati contraenti non sono obbligati a definire l’espressione “serious crime” nell’ambito del loro diritto interno, sarebbe utile che essi definissero un elenco comune di reati tipicamente connessi ai beni culturali, comprensivo di disposizioni che si pronunciano sulla gravità del reato da punire e sugli standard sanzionatori da applicare negli ordinamenti nazionali.
Un passo in favore dell’armonizzazione è stato compiuto dal gruppo di esperti sulla protezione nei confronti del traffico di beni culturali, il quale ha raccomandato agli Stati di criminalizzare le attività legate al traffico di beni culturali e di considerare la possibilità di rendere il traffico di beni culturali e i reati ad esso complementari, come i furti e i saccheggi nei siti archeologici, crimini gravi in conformità alla Convenzione UNTOC.
Difatti, attribuendo una definizione specifica al traffico di beni culturali e rendendo tale fattispecie penale un reato grave, gli Stati potrebbero rafforzare in modo significativo la capacità di proteggersi da questo reato secondo modalità ad essi comuni. Essi potrebbero, dunque, considerare di prevedere come crimini gravi una gamma più ampia di reati tipicamente connessi al traffico di beni culturali e prendere in considerazione l’adozione di ulteriori reati specifici in linea con le definizioni internazionali di traffico di beni culturali, al fine di offrire la più ampia protezione possibile ai beni culturali e facilitare, così, la cooperazione internazionale tra gli Stati.
Sarebbe auspicabile che questa tendenza avente ad oggetto l’estensione dell’applicazione della Convenzione UNTOC si consolidasse maggiormente sul piano concreto anche in ragione dell’effettiva universalità di tale strumento normativo, poiché il numero elevato degli Stati che hanno aderito alla Convenzione di Palermo (190, a fronte dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite) ne fa uno degli accordi internazionali di più ampia estensione territoriale.
Questa fondamentale caratteristica rende, a tutti gli effetti, tale strumento davvero idoneo a contrastare le attività illecite di natura transnazionale dirette contro il patrimonio culturale in cui sono coinvolti gruppi criminali organizzati in senso lato e che possono essere affrontate efficacemente soltanto attraverso una stretta cooperazione tra gli Stati.
La Convenzione, inoltre, prende le mosse dalla cristallizzazione del concetto di crimine transnazionale, ormai tradotto nelle legislazioni nazionali di tutti gli Stati che hanno ratificato la Convenzione, per contrastare gli scenari internazionali in cui operano i mercati illegali deputati all’esportazione e all’importazione illecita di oggetti culturali. Tale obiettivo è più facilmente perseguibile grazie alle numerose disposizioni convenzionali che pongono le basi legali per un’efficace cooperazione giudiziaria e di polizia fra le autorità di numerosi Stati della comunità internazionale, offrendo loro un linguaggio comune nel contrasto dei crimini contro il patrimonio culturale.
Tra queste norme non si possono non ricordare le regole in tema di giurisdizione (articolo 15), responsabilità delle persone giuridiche (articolo 10), azione penale, sentenze e sanzioni (articolo 11), confisca e sequestro (articolo 12), tecniche speciali di investigazione (articolo 20), indagini comuni (articolo 19), cooperazione di polizia (articolo 27), estradizione (articolo 16), assistenza giudiziaria reciproca (articolo 18) e, infine, cooperazione internazionale ai fini della confisca (articolo 13).
Nei prossimi anni sarà, dunque, compito degli esperti del settore monitorare e analizzare attentamente l’efficacia dell’applicazione della Convenzione UNTOC ai reati contro i beni culturali da parte degli Stati firmatari e, in secondo luogo, delle attività di ampio respiro svolte dallo UNODC in materia di beni culturali, compresa la raccolta e l’analisi di dati specifici sul traffico di opere d’arte. Questo processo di controllo è, infatti, necessario sia per fornire una comprensione obiettiva e apolitica dei crimini contro i beni culturali sia per valutare prontamente i risultati raggiunti nel percorso di rafforzamento del quadro penale recentemente intrapreso dalle Nazioni Unite.
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi sul traffico illecito di beni culturali. Istruttore direttivo amministrativo presso la Città metropolitana di Torino.