Bronzi di Riace. A Siracusa un caso di archeomafia? Piuttosto, una palese messa in scena

(Tempo di lettura: 13 minuti)

di Antonella Privitera, esperto scientifico dei Beni Culturali, perito forense e criminologa, ricercatrice presso l’Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Scienze.

Mittente anonimo:

State spendendo soldi inutilmente.
I bronzi erano a una profondità di circa 90 metri, e non certo a Riace.
Furono rinvenuti in Sicilia, trasportati e immersi a Riace per motivi di sicurezza.
Erano 5 statue, con armi e scudi, più due leoni.
Purtroppo per loro, a Riace furono scoperti quando già avevano tirato su quasi tutti i reperti.
Hanno raccontato che avevano fatto la grande scoperta, costretti, per non incorrere in sanzioni penali.
Quello che manca lo vendettero con la complicità della ndrangheta di Reggio.
[…]
Quelli che li trovarono, per caso, in Sicilia, essendo subacquei raccoglitori di corallo, non poterono andare oltre i 90 metri, […]

Se vuole sono a sua disposizione, ma per ora non dica niente a nessuno, […]

Saluti
Salve,
ho letto con molta curiosità la sua email.
In realtà la sua versione non è nuova, ma non ci sono mai stati elementi di riscontro, per cui non ho motivo di ritenerla attendibile e pertinente ai bronzi di Riace.
Dato che lei si è messo/a a disposizione, se ha piacere di approfondire questa versione, a me piacerebbe poterla sentire.
In firma trova il mio numero.

Grazie per avermi scritto,

Antonella.

Il 24 giugno 2024 giunse alla mia casella di posta ordinaria il messaggio di cui sopra, da un indirizzo email fittizio, il cui contenuto, completo delle successive corrispondenze, fu affidato al giornalista John Pedeferri, autore del podcast per Sky Tg24 “Trafug’Arte”[1], che decise di conseguenza di dedicarvi le due puntate del 22 novembre e 6 dicembre 2024. 

Il messaggio di posta elettronica giunse appena tre giorni dopo la diffusione della puntata del citato podcast Novità sui Bronzi di Riace, in cui si annunciavano le nuove prospezioni archeologiche nel successivo autunno, presso il sito eponimo delle due statue in bronzo più famose al mondo. 

L’anonimo mittente, che per sua supplica verrà chiamato con nome di fantasia “Enzo”, mi concede un incontro a Siracusa, il 28 agosto. L’appuntamento da lui fissato è presso la sede dell’Ordine dei Medici a Siracusa. Si presenta accompagnato dal dott. Anselmo Madeddu, medico e presidente dell’Ordine dei medici della città aretusea. Io, scortata da mio cognato, di Siracusa. Saliamo, il medico ci fa accomodare nel suo studio. 

La conversazione, che ho tentato con fatica di condurre sugli aspetti criminologici, era costantemente dirottata dal medico sugli aspetti di suo interesse: le sue “novità e verità perentorie” sull’origine siracusana della manifattura dei bronzi di Riace, a cui non ero particolarmente interessata. Il medico rispondeva alle mie domande anche quando erano rivolte a Enzo. L’oggetto della conversazione fu grossomodo lo stesso delle email e poi delle interviste rilasciate da Enzo ai vari giornalisti, nei giorni seguenti, con qualche differenza: i subacquei in azione a Brucoli, intenti nella pesca del corallo nero, nel racconto originario erano delinquenti romani affiliati alla banda della Magliana, con contatti diretti con un boss latitante siculo-calabrese; nella versione propinata ai giornalisti diventano collaboratori del pioniere dei fondali Jacques Cousteau. 

Tornata a casa, appuntai tutto nel mio blocchetto che uso abitualmente per annotare le mie telefonate e riunioni di lavoro. Mentre rileggevo quegli appunti, maturai la consapevolezza di essere stata oggetto di mistificazione e mi convinsi che le bufale archeologiche avevano una certa attrazione fatale per me.

Non era, infatti, la prima volta che soggetti dilettanti autodidatti in archeologia si rivolgevano a me con l’obiettivo, forse, di cercare consenso, o più semplicemente per fare sfoggio delle loro pseudo-competenze, tirando fuori racconti e congetture degne della fantasia dei più grandi autori letterari. Vale la pena ricordare la febbrile leggenda della “Biga di Morgantina”, balzata agli onori delle cronache tra il 2017 e il 2019, date, rispettivamente, del furto e del ritrovamento della biga della fonderia Chiurazzi, originariamente collocata nel cimitero di Catania[2]. Fu un’altra bizzarra storia di cui mi occupai, sciogliendo il bandolo della matassa in un contributo nel volume Ladri di Antichità. Il mercato clandestino di reperti archeologici e di opere d’arte in Sicilia: traffici illeciti e leciti recuperi, curato dalle archeologhe Simona Modeo e Serena Raffiotta, esperte di archeomafie. 

Nonostante la mia fondata perplessità sul presunto episodio criminale di cui Enzo era depositario, pur con il rischio di apparire grottesca, decisi comunque che andava fatto un tentativo coi Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, affidando al protocollo del loro Reparto Operativo il pdf che riportava l’intero scambio di messaggi di posta elettronica tra me ed Enzo. In Sicilia, lo stesso Enzo, sempre sotto l’egida del medico, riferì alla sede siracusana dei Carabinieri del TPC con – a suo dire – l’apertura di un’indagine da parte della Procura di Siracusa (il fatto risale a fine settembre 2024). La questione, priva di qualsivoglia attestazione schiacciante sugli oggetti trafugati, era pacificamente di nessun interesse penale, tantomeno per la Procura, dal momento che qualunque eventuale reato commesso all’epoca risultava prescritto e pertanto non meritevole di alcuno sforzo investigativo né forense.  

Analisi della “scena del crimine”

La domanda mi viene sottoposta da diversi anni, da quando nel 2019, il giornalista Giuseppe Braghò, in occasione dell’inchiesta de Le Iene[3], mi sottopose la questione relativa al possibile spostamento o ribaltamento dei due bronzi rispetto al punto in cui furono recuperati dai Carabinieri sommozzatori di Messina il 21 e 22 agosto 1972. 

In una simile versione torna alle mie orecchie quando il giornalista Pedeferri, sempre nel 2019, stava lavorando al suo primo podcast di Trafug’Arte, dedicato all’inchiesta di Braghò. 

Risuona nuovamente dopo aver sentito la storia di Enzo nel 2024: le due statue sarebbero state spostate a Riace da Brucoli (Siracusa), mesi prima del rinvenimento ufficiale, tra il 1971 e i primi del ’72?

Per mia deformazione professionale, la risposta al quesito esige di portare la discussione sul piano tecnico-scientifico – mi sforzerò di comunicare nel modo più semplice e sintetico possibile – immaginando porto Forticchio-Riace quale supposta scena del crimine. I testimoni? Proprio le due statue di bronzo, affidabili e che non mentono. Gli “atti” a disposizione per rispondere al quesito contengono aspetti solidi. Il riferimento è alle riprese video del recupero delle due statue[4], che ne documenta la giacitura, e alla cospicua letteratura scientifica, prodotta in mezzo secolo di studi e ricerche sui bronzi di Riace, che hanno consentito a studiosi e ricercatori di tutto il mondo di apprendere metodi e criteri di studio sulla bronzistica antica, oltre che sulla conservazione e restauro. Sono proprio questi ultimi aspetti a supportare la risposta: l’area circoscritta tra gli scogli di Porto Forticchio, nel fondale di Riace, rappresenta oltre ogni ragionevole dubbio il contesto archeologico delle due statue in bronzo.  

Dalla bibliografia, infatti, si comprende molto bene quale sia stato il rapporto tra le due sculture e quel basso fondale, nonché l’interazione chimico-fisica con l’ambiente di giacitura. Questi ragionamenti sono stati affidati per la prima volta ai microfoni di Trafug’Arte, per la puntata del 6 dicembre 2024, che qui si riportano in forma più articolata.

La composizione delle patine di corrosione, ovvero i composti del rame mineralizzato (il rame è principale costituente del bronzo), sono il frutto della prolungata esposizione in particolari condizioni di giacitura. Nello studio di Buccolieri G. et al. (2015)[5] è stata caratterizzata la composizione delle patine di corrosione dei due bronzi. Da questo studio è emerso che le zone dove la superficie del bronzo è più scura, corrispondono a quelle meglio conservate, mentre quelle in cui il colore è verde chiaro, corrispondono a quelle in cui il cloro è maggiore, cioè maggiormente attaccate dalla salsedine. Secondo lo studio di Garbassi F. e Mello E. (1984)[6], lo spessore delle patine di corrosione varia da circa 70 micron (0,007 cm), per le parti meglio conservate, a submillimetriche per quelle più corrose, che testimoniano il lungo processo di degrado corrosivo in quell’ambiente marino. La distribuzione delle patine di corrosione nelle due statue non è casuale, in quanto esse si sono sviluppate e differenziate proprio in virtù dell’interazione manufatto-ambiente, concetto tanto caro anche ai restauratori. Anche dopo l’intervento di restauro è ancora possibile osservarle proprio come se fossero delle cicatrici sulla pelle del bronzo. Chiunque può notarle, anche i comuni visitatori. 

  • Nel bronzo A (il giovane) si osserva una patina di colore verde marcio, corrispondente a composti clorurati del rame, prevalentemente distribuita nella zona posteriore; vista di lato, forma una linea netta che percorre il fianco sinistro, dalla spalla (omero) fino alla coscia e nel lato destro del dorso, dalla scapola fino al tallone, con zone maggiormente corrose in corrispondenza dei glutei e sul gomito sinistro. Questa patina descrive perfettamente il lato emergente dal fondale, quindi esposto alla salsedine e coincide con la posizione che aveva il bronzo quando fu scoperto. Viceversa, il lato anteriore del bronzo A è di colore nero-bruno, molto ben conservato, che conserva traccia dell’originaria finitura della superficie brunita a solfuri, ed è corrispondente col lato sprofondato nel fondale asfittico, parametro ambientale che rallenta e limita la corrosione. Vale a dire, il bronzo A era prono, leggermente inclinato col fianco sinistro più esposto e il capo sprofondato nel fondale, tanto da produrre tenaci incrostazioni ricoprenti completamente il volto e la testa. 
  • Nel bronzo B (il vecchio) la distribuzione delle patine appare più disordinata che nel bronzo A, per via della probabile diversa finitura della superficie in antico, ma si osserva comunque la patina verde dei composti clorurati prevalentemente distribuita sulla superficie del petto, nel volto e nella parte anteriore delle cosce, soprattutto del suo ginocchio sinistro, che quindi corrispondono alle porzioni anatomiche esposte alla salsedine. Vale a dire, il bronzo B è stato in giacitura perfettamente supino, nella posizione in cui è stato rinvenuto. 
Rilievo grafico della distribuzione delle patine di corrosione sulla superficie del bronzo A (elaborazione di A. Privitera; crediti foto: Araldo De Luca).
Fotogramma dal repertorio RAI, che documenta l’attività di recupero del bronzo A, operato dai Carabinieri sommozzatori di Messina e ne immortala la posizione di giacitura, in accordo con i rilievi delle patine.

Queste osservazioni testimoniano che le due statue sono rimaste in quella esatta posizione di rinvenimento e condizione di giacitura per lunghissimo tempo, non certo per i pochi mesi in cui Riace, secondo il racconto di Enzo, sarebbe stato il ricovero provvisorio di una operazione di archeomafia siculo-calabrese.

Le valutazioni sulla giacitura sono completate dai dati sulle incrostazioni e concrezioni che ricoprivano le due statue. Nelle porzioni anatomiche a contatto col fondale e caratterizzate da angoli (es. volto, pieghe delle gambe e delle braccia) sono state osservate e staccate delle concrezioni, oggetto poi di studio pubblicato[7], descritte come “spesse incrostazioni di ghiaia e sabbia” cementati da una componente carbonatica. Si tratta del medesimo sedimento descritto dall’archeologo subacqueo Lamboglia, che nel 1973 effettuò una campagna di scavo, per perlustrare la zona di giacitura dei bronzi e documentarne la stratigrafia. Le prime ricerche subacquee compiute da Lamboglia sono importantissime in quanto le più prossime, in termini di tempo, al momento del recupero. Nel giornale di scavo di Lamboglia, pubblicato da Francisca Pallarès (Bollettino 1984), lo strato di sedimento di giacitura delle due statue è descritto come ghiaia fluviale, su cui era presente uno strato di spessore variabile di sabbia marina, gli stessi elementi che caratterizzavano le incrostazioni dei bronzi, incompatibili con un fondale a 90 metri di profondità. Per un rapido confronto con reperti affetti da incrostazioni marine (per lo più biogeniche) di alto fondale, totalmente diverse da quelle attestate sui bronzi di Riace, si vedano le immagini dei reperti recuperati presso le isole Egadi[8].

Sezione trasversale di incrostazione rimossa dalla superficie dei bronzi di Riace composta da sabbia e ghiaia (dal Bollettino d’Arte 1984).
Stratigrafia documentata da Lamboglia nel 1973 nell’area di recupero dei bronzi di Riace.

Nessuna nave da cercare 

Riace è considerato dagli archeologi un “contesto secondario”, dal momento che il contesto primario, ovvero dove le sculture furono originariamente collocate in antico, non è ancora stato individuato nelle fonti, lacuna che continua a dare adito alle molte speculazioni in merito, come quelle a cui stiamo assistendo in questi giorni col “caso del medico Madeddu” e su cui non intendo soffermarmi. 

Qualche indizio anche sulla circostanza che spiegherebbe la collocazione dei bronzi in quel punto, lo ritroviamo proprio nelle pubblicazioni successive alla scoperta dei bronzi e nei pochi ma esaustivi dati di scavo di Lamboglia. Si riporta ad esempio il rinvenimento, proprio nello strato di ghiaia fluviale, di 28 anelli di vela in piombo. Questi dati sulla singolare giacitura suggeriscono – ma questo aspetto è destinato a rimanere irrisolto – che le due sculture in bronzo sarebbero state avvolte in vele e accuratamente adagiate, parallele l’una accanto all’altra, nel punto di rinvenimento, quindi celate sotto il pelo dell’acqua, probabilmente per essere sottratte ad un tentativo di distruzione o razzia in antico. Circostanza simile è accaduta ad esempio per il Principe ellenistico e il Pugile in Riposo, altri due magnifici esemplari in bronzo scoperti dall’archeologo Rodolfo Lanciani alla fine dell’800 a Roma alle pendici del Quirinale, che non condividono lo stile e la manifattura, ma soltanto lo stesso contesto archeologico: erano stati certamente nascosti con cura, per essere sottratti alle razzie di predoni che invasero Roma dopo la caduta dell’Impero Romano, per poi essere recuperati in tempi più tranquilli. Chi ha avuto pietà per questi capolavori ha garantito che continuassero ad emozionarci ancora oggi. 

L’attuale off-shore di Porto Forticchio, dunque, sarebbe stato per i due bronzi di Riace il loro nascondiglio in antico, da cui deriverebbe l’assenza di altri reperti archeologici coevi all’ultimo istante di vita dei bronzi. La sequenza dei sedimenti in quel punto del fondale testimonia, inoltre, che doveva trattarsi della foce di una delle fiumare che caratterizzano quel tratto di costa, la cui linea è cambiata nel tempo[9].  

L’ipotesi è avvalorata anche dalla presenza di frammenti ceramici antichi ma di età molto varia, da ellenistica a quella imperiale (o in alcuni casi non determinabile), le cui analisi minero-petrografiche (a cura di Tiziano Mannoni) e tipologiche (a cura di Clementina Panella) sono pubblicate nei citati bollettini del 1984. Undici campioni di ceramica sono stati recuperati, sia attaccati alle statue sia nelle loro adiacenze sul fondale di Riace, classificate in modo random ed eterogeneo come: provenienti dal Nord-Africa e dal Medioriente (gruppo1), da Creta e varie aree dell’Egeo (gruppo 2) e dalla Grecia (gruppo 3). 

La presenza di questi piccoli frammenti così diversi tra loro ma di uguale distribuzione, sia concrezionati nelle statue sia nel livello di ghiaia fluviale, non può essere compatibile con il carico di una nave. È piuttosto da riferirsi a detriti trasportati dalla fiumara alla sua foce, in un lungo arco temporale. Anche se non chiariscono la datazione del contesto di rinvenimento, questi frammenti ceramici costituiscono un ulteriore elemento di connessione delle due statue col singolare contesto archeologico di Riace. 

Non a Brucoli…

Il primo aspetto del racconto di Enzo, che ho sottoposto a verifica, ha riguardato la presenza di coralli, in particolare coralli neri, come da lui precisato, nel litorale siciliano tra Catania e Siracusa, ove cioè ricadrebbe il presunto giacimento archeologico di ben sette bronzi antichi, oggetto di trafugamento: cinque a figura umana e due leoni a grandezza naturale. La letteratura scientifica[10] parla chiaro: non esistono record di questi organismi marini nell’area in questione. Gli studi dei biologi marini dell’Università di Genova e dell’ISPRA hanno infatti prodotto una sistematica mappatura e censimento delle varie specie di coralli nei mari italiani, mediante l’impiego di ROV, confermando l’assenza di record in tutto l’off shore compreso tra lo stretto di Messina e il Canale di Sicilia. 

La storia di Enzo si fonda su notizie mendaci già dall’incipit. Nessuna pesca di corallo a Brucoli. E dopotutto, nemmeno gli abitanti del posto – tranne i fratelli Bertoni, “supertestimoni” scovati dal Madeddu – ricordano di aver mai sentito o visto che a Brucoli ci fossero corallari specializzati ed equipaggiati per scendere a ben 90 metri di profondità, in quanto le miscele di gas usate oggi per l’immersone dagli altofondalisti, l’Heliox e il Trimix, all’epoca erano ad uso esclusivo di pochi pionieri. 

Oppure, pensai che semmai ci fosse stato qualcosa di genuino nel racconto di Enzo, non riguardava affatto i bronzi di Riace, ma probabilmente altro sito, magari nel canale di Sicilia, in cui i coralli sono attestati e dove, secondo l’opera del giornalista Tsao Cevoli[11] potrebbe provenire il giacimento archeologico subacqueo da cui fu sottratto clandestinamente l’Apollo Sauroctono, oggi a Cleveland. Labile tesi, accolta però dalla giornalista Dania Mondini, la quale, facendola propria, l’ha introdotta nella puntata notturna dello speciale RAI, il 4 maggio scorso. 

Mappa di distribuzione dei coralli neri nei mari italiani. Linee rosse: isobate di 50 m; linee blu: isobate di 100 m; linee grigie: isobate di ciascun intervallo di 200 m (da: Ingrassia, M., & Di Bella, L., 2021).

Lo scoop a tutti a costi

Dalla storia di Enzo proliferano testimoni come ife fungine, tutti collegati per amicizia e contiguità territoriale al medico. Salta fuori “la foto”, propinata al grande pubblico dalla RAI nello speciale del 4 maggio. La foto, di cui esiste solo una versione digitale, a novembre 2024 era stata inviata anche al giornalista Pedeferri da Madeddu, il quale sosteneva di averla ricevuta anonimamente e di averla fatta visionare ed esperti di fotografia, i quali si sarebbero espressi sulla genuinità.  

“Non v’è chi non veda”, la foto in questione è un fotomontaggio in cui vi è il ritaglio dalla foto di repertorio, che tratteggia il bronzo A sulla spiaggia di Riace dopo il recupero (qui ruotata per convenienza del lettore). Accortosi della circostanza palesemente costruita ad arte, il giornalista adottò le necessarie circospezioni rinunciando a diffondere la foto fake.

A pompare inverosimilmente questa farsa è la notizia, vecchia ove non verificata, del 5 maggio scorso, diramata dopo il servizio notturno della RAI, sulle indagini della Procura di Siracusa. Si cita però il modello 45, il cui significato dev’essere sfuggito ai giornalisti. Trattasi del modo in cui le Procure della Repubblica “cestinano” atti e documenti ricevuti, che il magistrato è obbligato a valutare, quando non presentano aspetti meritevoli di confluire nel registro delle notizie di reato. Caso archiviato.

A sinistra, il fotomontaggio fornito da Anselmo Madeddu ai giornalisti; a destra, la foto di repertorio da cui è tratto il fotomontaggio.

NOTE

[1] https://tg24.sky.it/podcast/trafugarte 

[2] Si segnalano i servizi:

  • La Sicilia, 20 ottobre 2019. “Il sito archeologico? Una fonderia. La biga solo un pezzo di antiquariato”, di Marta Furnari.
  • https://www.rainews.it/tgr/sicilia/video/2019/10/sic-mistero-biga-cimitero-catania-2f7d79d9-d73a-4ab8-ae0a-8aae9d096a80.html

[3] https://www.iene.mediaset.it/video/bronzi-riace-misteri-reperti-mare_524659.shtml

[4] Documentate dai RAI3.

[5] Buccolieri, G., Buccolieri, A., Donati, P., Marabelli, M., & Castellano, A. (2015). Portable EDXRF investigation of the patinas on the Riace Bronzes. Nuclear Instruments and Methods in Physics Research Section B: Beam Interactions with Materials and Atoms343, 101-109.

[6] Garbassi, F., & Mello, E. (1984). Surface spectroscopic studies on patinas of ancient metal objects. Studies in Conservation29(4), 172-180.

[7] Due bronzi da Riace. Rinvenimento, restauro, analisi ed ipotesi di interpretazione, Bollettino d’Arte, Serie Speciale, 3, I-II, Roma (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), 1984.

[8] https://www.prolocoegadi.it/2017/10/25/levanzo-e-marettimo-trova/

[9] Stanley, J. D., Bernasconi, M. P., Toth, T., Mariottini, S., & Iannelli, M. T. (2007). Coast of Ancient Kaulonia (Calabria, Italy): Its submergence, lateral shifts, and use as a major source of construction material. Journal of Coastal Research23(1), 15-32.

[10] Bibliografia su coralli nel mediterraneo:

  • Canessa, M., Bo, M., Cau, A., Corriero, G., Follesa, M. C., Mercurio, M., … & Bavestrello, G. (2025). Are colony growth rates depth-dependent in the Mediterranean red coral?. The European Zoological Journal92(1), 25-37.
  • Ingrassia, M., & Di Bella, L. (2021). Black coral distribution in the italian seas: A review. Diversity13(7), 334.
  • Terzin, M., Paletta, M. G., Matterson, K., Coppari, M., Bavestrello, G., Abbiati, M., … & Costantini, F. (2021). Population genomic structure of the black coral Antipathella subpinnata in Mediterranean Vulnerable Marine Ecosystems. Coral Reefs40, 751-766.
  • Cattaneo‐Vietti, R., Bavestrello, G., Bo, M., Canese, S., Vigo, A., & Andaloro, F. (2017). Illegal ingegno fishery and conservation of deep red coral banks in the Sicily Channel (Mediterranean Sea). Aquatic Conservation: Marine and Freshwater Ecosystems27(3), 604-616.
  • Bo, M., Bava, S., Canese, S., Angiolillo, M., Cattaneo-Vietti, R., & Bavestrello, G. (2014). Fishing impact on deep Mediterranean rocky habitats as revealed by ROV investigation. Biological Conservation171, 167-176.
  • Bo, M., Tazioli, S., Spanò, N., & Bavestrello, G. (2008). Antipathella subpinnata (Antipatharia, Myriopathidae) in Italian seas. Italian Journal of Zoology75(2), 185-195.

[11] Cevoli, T., Apollo. Il Caso Cleveland, Napoli 2022 (Edizioni Liberarcheologia). ISBN 978-88-905720-8-1.

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