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I Torlonia e l’archeologia nell’Ottocento. Recensione al volume di Jessica Clementi

(Tempo di lettura: 5 minuti)

Il 14 ottobre 2020 ha aperto al pubblico I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori, un’attesa esposizione a cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri nella nuova sede dei Musei Capitolini di Villa Caffarelli a Roma. Una selezione di 92 marmi, scelti e restaurati con il contributo di Bvlgari, tra le 620 opere catalogate e appartenenti alla più prestigiosa raccolta privata di sculture antiche, romane e greche, al mondo, è stata recuperata dall’oblio e restituita alla fruizione pubblica grazie al progetto scientifico di studio e valorizzazione di Settis e all’intesa tra il Ministero della Cultura e la Fondazione Torlonia. Un evento eccezionale dedicato alla «collezione di collezioni» e al suo «popolo di statue [che] aspetta[va] nell’ombra» da decenni il momento di potersi nuovamente svelare. Gà nel 1982 Antonio Cederna, dalle colonne de la Repubblica, sosteneva che la raccolta fosse «Accessibile in passato agli studiosi e a chi, dopo vari salamelecchi all’amministrazione Torlonia, riusciva ad ottenere un permesso (come è capitato trent’anni fa al sottoscritto), è poi stata definitivamente sbarrata al pubblico: Ranuccio Bianchi Badinelli, quand’era direttore generale delle antichità e belle arti, per visitarla preferì travestirsi da spazzino e, attaccato discorso col custode al di là dei cancelli, poté vedere dal vivo quelle opere che conosceva attraverso le fotografie». E quella interdizione è arrivata fino a noi, trovando sospensione solo nel 2020: il «fine primario di questa mostra è rivelare, a chi ne sa poco, o ricordare, a chi ne sa qualcosa o molto, l’eccezionale ricchezza di questa collezione, anzi direi, l’esistenza stessa del Museo Torlonia, chiuso da svariati decenni», ha avuto modo di dire Settis nel corso di un convegno organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei. Una prima tappa insomma, nei termini dell’accordo siglato il 15 marzo 2016, verso la riapertura (?) del Museo che nel secondo dopoguerra dovette “cedere il passo” ad altre destinazioni d’uso, decretando così la morte pubblica di una collezione straordinaria che è sopravvissuta ai suoi possessori e ai posteri in scantinati e spazi angusti.

Ma i Torlonia come hanno costituito questa mirabile raccolta? Da quale contesto archeologico provengono i Marmi? Come s’intreccia la relazione tra Giovanni e Alessandro Torlonia con l’archeologia? A queste e ad altre domande di ricerca cerca di offrire delle risposte puntuali lo studio da certosino delle fonti di Jessica Clementi in I Torlonia e l’archeologia nell’Ottocento. Scavi e scoperte nel Parco dell’Appia Antica, la recente pubblicazione di Gangemi Editore che si inserisce nella collana L’Appia Antica e Roma diretta da Rachele Dubbini. Del lavoro di Clementi è tangibile – e a tratti perfino trascritto nelle corpose appendici a corredo dei capitoli – l’imponente apparato testuale, grafico e cartografico consultato, riordinato, confrontato e studiato. La ricerca, che prende spunto proprio dalla notizia dell’esposizione a Villa Caffarelli, si snoda (nonostante l’accesso limitato o del tutto precluso ai documenti, come nel caso del Fondo Lanciani, in questi anni contrassegnati dal Covid) anzitutto per definire con chiarezza toponimi e topografie delle proprietà in cui i Torlonia si fecero promotori di importanti campagne di scavo, alla ricerca di antichi tesori sepolti in quella porzione della Campagna Romana lungo l’Appia Antica che già «dalla metà del Seicento alimentava la suggestione di artisti, viaggiatori ed eruditi da ogni parte d’Europa». Le lacune nei dati, l’imprecisione di alcune fonti e le ambiguità toponomastiche, anche se rendono la ricostruzione archivistica dei luoghi e dei ritrovamenti spesso problematica, non scoraggiano Clementi che restituisce nella prima parte del suo lavoro una proposta sistematizzata e convincente del contesto. La scelta di circoscrivere temporalmente lo studio all’Ottocento trova più di una ponderata ragione: è il secolo in cui acquisizioni e rinvenimenti contribuiscono in modo massivo a costruire la collezione della famiglia Torlonia; questo è il periodo in cui la metodologia della ricerca e lo studio archeologico vanno assumendo un rilevante carattere scientifico; è nella scia riformatrice dell’unificazione dello Stato italiano che trovano una dimensione più compiuta la conoscenza, la valorizzazione ma sopratutto la tutela del patrimonio culturale.

Capacità imprenditoriali e ambizioni personali, avidità predatoria e spregiudicatezza, relazioni accademiche e nobili rapporti internazionali, scavi autorizzati e vendite illegittime, smembramenti, restauri in proprio e ricollocazioni, inosservanza delle leggi e mecenatismo di propaganda, gusto e collezionismo, questi sono alcuni degli ingredienti, con ritocchi e rivisitazioni, che insaporiscono il tratto di storia scritto da Giovanni Raimondo Torlonia Duca di Bracciano e dai figli, Carlo e Alessandro in particolare. Perché, se dalle carte emergono i fatti, in filigrana troviamo le personalità, le debolezze e i successi dei protagonisti che, attraverso la ricerca dell’antico e del bello, provano ad affrancarsi dall’accumulo del “vil denaro” per avvicinarsi all’aura del sangue blu.

Senza troppo anticipare o compromettere il piacere di questa ricca lettura, a Clementi va riconosciuto il merito di aver saputo recuperare, e in qualche modo ricucire, il legame tra oggetto e luogo, tra ambito e rapporti di potere e tra poteri, a partire proprio “dalla voce” delle fonti: un conto è l’interpretazione rielaborativa e un conto è la trascrizione dei documenti che, come nel caso dell’erma di Demostene venduta al Re di Baviera, senza autorizzazione né alcuna licenza di esportazione, ci trasmette tutto il disappunto verso la disubbidienza delle leggi e le promesse di tutela, unito all’infastidito imbarazzo del Camerlengo che si trova nell’increscioso compito di dover avvallare una perdita per non incorrere in un incidente diplomatico: «Quindi lo scrivente non può rifiutarsi dal permettere l’estrazione per l’estero dell’erma di Demostene rinvenuta nei suindicati scavi dal menzionato Duca, che per censurabile avidità di lucro la vende in opposizione alle sue promesse; il quale monumento avea eccitato lo zelo della commissione a servare speciale rilievo.».

Se l’esposizione I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori, più volte prorogata, ha ottenuto nell’immediato il “dissequestro” dall’oblio di una parte delle opere, suscitando il prevedibile e giusto apprezzamento verso una collezione unica per quantità, qualità e varietà; il lavoro di ricerca di Jessica Clementi si inserisce a pieno titolo nella seconda sezione della mostra, dedicata alle Sculture da scavi Torlonia del secolo XIX, e consegna al lettore le chiavi per decifrare il panorama storico e culturale che ha dato i natali al manifesto politico della famiglia Torlonia: la sua Collezione.

Jessica Clementi, I Torlonia e l’archeologia nell’Ottocento. Scavi e scoperte nel Parco dell’Appia Antica, Gangemi Editore, Roma 2021, pp. 208, 25,00€

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