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Il riciclaggio di opera d’arte

(Tempo di lettura: 16 minuti)

Saviano, in Gormorra, narra che “Luigi Vollaro, detto‘o Califfo’, possedeva una tela del suo prediletto Botticelli” [1], che parrebbe, poi, aver usato per corrompere un giudice [2].

Le opere d’arte, sul piano giuridico, sono beni mobili non registrati che incorporano un valore ma, come scriveva Karl Marx, “il trafficante in minerali vede soltanto il valore commerciale, ma non la bellezza e la natura caratteristica del minerale” [3] e per questo diventano appetibili per ogni economia, compresa quella del crimine.

In taluni casi, quindi, dipinti, sculture o reperti archeologici vengono impiegati in operazioni di riciclaggio di denaro (money laundering) e utilizzati dalle associazioni criminali come mezzo per «ripulire» le ricchezze accumulate in modo illecito. [4]

Quello dell’arte è un mercato non regolamentato dove gli scambi non hanno luogo secondo modalità predefinite, sia con riferimento ai meccanismi di fissazione del prezzo, sia con riferimento al pagamento e/o al trasferimento del bene. Non vi è una disciplina specifica dettata dalle autorità e non vi sono prescrizioni sul rispetto degli obblighi di trasparenza e comunicazione. È un mercato asimmetrico, poco trasparente e “non è poi necessario che il prezzo sia legato al criterio della ragionevolezza” [5].

L’assenza di regole uniformi internazionali che normino gli scambi, nonché l’aleatorietà del valore spesso legato all’expertise di persone umane, opinabili, fallibili e talvolta corruttibili o in conflitto d’interesse, allontanano gli investitori istituzionali (Banche e Fondi d’investimento) e agevolano lo sfruttamento dei beni d’arte o dei reperti archeologici anche da parte di operatori del crimine.

Secondo quanto risulta dall’attività del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico, infatti, consistenti capitali di provenienza illecita vengono impiegati — normalmente attraverso prestanome o persone apparentemente «pulite» — per l’acquisto di opere ed oggetti d’arte presso antiquari o case d’asta compiacenti, che, per ragioni fiscali, occultano l’effettivo prezzo corrisposto dall’acquirente, riscuotendo in nero ed in contanti la differenza rappresentata da denaro da riciclare; successivamente, l’operazione viene completata mediante la vendita di quanto acquistato tramite casa specializzata, realizzandosi in maniera trasparente e apparentemente lecita l’effettivo valore di merce”.

La grande attrattività dell’arte per questo tipo di illecito è, purtroppo, favorita anche dal fatto che un oggetto di modeste dimensioni e agevolmente trasportabile, può incorporare, talvolta, un valore rilevantissimo.

A questo si aggiunge che i nomi dei mandanti e degli acquirenti alle aste internazionali e delle transazioni sono coperti da uno stretto vincolo contrattuale di riservatezza [6].

Secondo Francesco Greco, “si tratta di beni «forti» [7], che assicurano una notevole redditività dell’investimento e una pressoché assoluta garanzia di non riconoscibilità della provenienza del denaro utilizzato per l’investimento” [8].

La normativa antiriciclaggio, è applicabile anche ai soggetti che esercitano attività di commercio di cose antiche in virtù della dichiarazione preventiva prevista dall’articolo 126 TULPS, ai soggetti che esercitano l’attività di case d’asta o galleria d’arte ai sensi dell’articolo 115 TULPS, che soggiacciono a tre obblighi fondamentali: identificazione del cliente e “adeguata verifica della sua operatività”, registrazione delle operazioni (oltre la soglia) e segnalazioni di operazioni sospette. In conformità alla Terza Direttiva 2005/60/CE.

Con il recepimento della Quinta direttiva europea dlgs 125/19 gli obblighi sono stati estesi anche ai soggetti che custodiscono o commerciano opere d’arte, ovvero, che agiscono come intermediari nel commercio delle stesse, qualora tale attività sia effettuata all’interno di porti franchi e il valore dell’operazione, anche se frazionata, o di operazioni collegate sia pari o superiore a 10.000,00 euro.

Di recente, il caso è stato affrontato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 7241 del 24 febbraio 2020 che ha confermato, la condanna della Corte d’Appello di Venezia, inflitta ad un imprenditore, per aver acquistato con denaro proveniente dalla bancarotta di una nota società per azioni, 22 opere d’arte «blue chip» [9], tra cui Picasso, Warhol, Fontana e Basquiat, considerate quale “trasformazione di denaro di illecita provenienza in beni di altro genere”.

In primo grado anche il mercante d’arte che aveva venduto le opere, acquistate poco prima da una nota casa d’aste italiana, poi fallita, era stato condannato per riciclaggio sulla base del fatto che “la sua responsabilità era fondata sulla peculiarità dell’operazione eseguita per circa 16.000.000 di euro in un lasso di tempo ristretto e con il non certo usuale acquisto per “stock” non coerente con la natura dei beni”, nonché sulla considerevole remunerazione dallo stesso percepita per l’operazione.

L’assoluzione del mercante da parte della Corte d’Appello di Venezia, a sommesso parere di chi scrive, desta qualche perplessità, e il caso, non solo quanto ai gusti artistici, sembra molto simile a quello che portò, nel 2015, alla condanna per riciclaggio negli Stati Uniti, di un re del narcotraffico [10], a cui vennero sequestrate 59 opere del valore complessivo di 600 milioni di dollari, tra cui alcuni dipinti di Pablo Picasso e di Salvador Dalí. In quel caso anche il gallerista che gli aveva venduto le opere è stato condannato per riciclaggio [11].

Oggi che l’arte è prepotentemente approdata anche nel mercato delle criptovalute [12] e dei “sospetti che l’universo parallelo dell’etere porta con sé, il tema è divenuto ancora più rilevante, ma altrettanto rilevante e più sommerso è il reato di riciclaggio dell’opera d’arte.

Un fenomeno più sottile e sovente meno riconoscibile, che sempre si inquadra nella fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p. e ma spesso viene rubricato sotto i meno gravi reati di ricettazione o esportazione illegale, o peggio ancora ritenuto solo una questione civile limitata all’indagine sulla sussistenza o meno di buona fede (art. 1153 c.c.) da parte dell’acquirente di un bene di provenienza delittuosa.

La fattispecie si configura tramite “l’occultamento della provenienza illecita della stessa, realizzato facendo in qualche modo perdere le tracce e le prove dell’origine dell’arricchimento, in modo da rendere impossibile risalire al reato. Vi rientrano, in sostanza, quelle condotte in forza delle quali un soggetto, ricevuta la disponibilità, materiale o giuridica, del compendio criminoso lo ritrasferisce a terzi, nell’identica composizione quantitativa e qualitativa, ponendo in essere un artificioso passaggio volto ad ostacolare l’identificazione dell’effettiva provenienza illecita: si incarica di portare in un luogo sicuro (all’estero, ecc.) il compendio criminoso (oro, pietre preziose, oggetti d’arte, ecc.), trasferendolo dal luogo ove può essere meno facilmente recuperato dalle forze dell’ordine” [13] o individuata la sua provenienza da un delitto e in modo da ostacolarne l’identificazione della provenienza.

Gli operatori del crimine sono “capaci di “vestire” il bene di una nuova etichettatura che ne attesti la lecita provenienza, seppure sospetta” [14] che permetta loro in una nuova veste purificata e pirandellianamente recisa di netto ogni memoria [omissis] della vita precedente” [15], di farne commercio e ricchezza.

Sotto il profilo dell’accertamento del dolo per contestare utilmente il delitto di riciclaggio è spesso sufficiente che il soggetto indagato abbia ragionevoli sospetti sulla provenienza del bene, purché si adoperi ad occultarne la provenienza. E, quindi, il dolo dei reati ora in considerazione (ricettazione e riciclaggio) può essere diverso; ma senz’altro di più agevole dimostrazione nell’incriminazione in esame (quella di riciclaggio)” [16].

Il riciclaggio, infatti, “non è un fenomeno solo monetario, che pure avviene in materia di beni culturali, quando il danaro proveniente da altre attività criminali viene utilizzato per acquistare un oggetto artistico. Molte volte è però lo stesso reperto archeologico che può essere oggetto di riciclaggio. Ciò si verifica quando esso viene sottoposto alle operazioni che a titolo di esempio qui appresso si enumerano: (a) possono esservi esportazioni in territori esteri che hanno come unico fine quello di riciclare un bene. Tali destinazioni vengono adottate perché il bene nel paese di origine non può essere legittimato o di esso non ne è consentita l’esportazione. Altre volte l’esportazione serve a rendere più difficile l’accertamento in merito all’autenticità del bene. In altre, ancora, l’esportazione avviene verso un Paese che non ha aderito alle convenzioni di settore” [17].

Nell’accertamento della condotta di sostituzione, idonea a configurare il reato “attesa la genericità dell’espressione, devono farsi rientrare tutte le attività dirette ad incidere sul compendio criminoso recidendo ogni possibile collegamento, oggettivo e soggettivo con il reato” [18], compresa la sola dissimulazione della provenienza delittuosa del bene.

Il caso più noto in giurisprudenza riguarda il bronzo “Jean d’Aire” detto “Borghese di Calais” dello scultore August Rodin e il dipinto Portrait de la femme au chien di Marie Laurencin deciso dalla Cour de Cassation – Chambre criminelle, il 1 febbraio 2005, n° 04-81.962.

La Corte aveva evidenziato che di tali opere era stato denunciato il furto nel novembre del 1999 e che un soggetto entrato in possesso delle stesse, le aveva vendute tramite un intermediario nel dicembre successivo alla Galleria d’arte Tillier, la quale nello stesso mese di dicembre aveva rivenduto il bronzo a un art dealer, la Montjoie Art Transactions. Il dipinto, invece, era stato venduto dalla Galleria Thomire alla galleria Bailly, che, a sua volta, nel gennaio del 2000 aveva riacquistato la metà del bronzo dalla Montjoie Art Transactions.

La Suprema Corte francese aveva ritenuto rilevante il fatto che durante queste transazioni, non fosse stata effettuata alcuna verifica sull’origine di queste opere, che la galleria Thomire avesse dato una descrizione dell’opera di Marie Laurencin “diversa” da quella indicata nel catalogo ragionato di Daniel Marchesseau, Marie Laurencin 1883-1956 Catalogue raisonné de l’oeuvre peint e accertato che questi professionisti del mercato dell’arte non avevano preso tutte le misure necessarie per assicurare la regolarità del loro acquisto e che il pagamento con assegno e la registrazione di questi acquisti nel loro libro di polizia fossero formalità minime per dei professionisti del settore ma non sufficienti.

Nonostante in Francia viga il principio della possession vaut titre, è stato ritenuto rilevante che nell’arco di dieci giorni, tre galleristi si fossero passati la statuetta e il quadro l’un l’altro, “il che equivale al riciclaggio di opere d’arte”; che nessuno di loro avesse controllato l’origine e l’autenticità delle opere e contattato il museo Rodin.

La Corte ha, inoltre, sottolineato che non ci fosse alcuna giustificazione per una tale fretta se non la certezza di fare un “buon affare” e di essere coperto dalla buona fede con il pretesto di un pagamento con assegno ad un altro gallerista.

In Italia il fenomeno, oggi esteso anche alle opere d’arte, si era diffuso dapprima relativamente ai reperti archeologici che “prima di arrivare agli acquirenti finali i materiali scavati clandestinamente venivano sottoposti ad un lungo “lavaggio a freddo”, per cancellare le tracce della loro provenienza illecita e dotarli di un falso pedigree, attraverso una serie di compravendite vere o fittizie, con dichiarazioni e documentazioni false o illusorie, come il fittizio inserimento in una collezione ben nota, passaggio ed una serie di «triangolazioni» che consentissero il riciclaggio del materiale archeologico ricettato e la sua vendita a terzi, soprattutto musei esteri, facendone apparire una fittizia provenienza legittima” [19] come accertato dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 40402/00 R.G.N.R, n. 3553/01 R.G. G.I.P., in data 13 dicembre 2004, nel procedimento a carico di Giacomo Medici.

Il sistema era molto semplice, una vera e propria catena di montaggio: prima i tombaroli sul luogo di origine, poi gli intermediari locali, seguiti dai mercanti in Svizzera per il deposito e la confezione di documentazione falsa, infine i dealer più potenti, ricchi e famosi che portavano gli oggetti negli Usa per venderli ai Musei, loro clienti da sempre” [20].

In dottrina, è stato affermato che “il mercante d’arte è, normalmente, l’anello di congiunzione che collega gli autori materiali del trafugamento della res delittuosa agli acquirenti finali. Egli agisce, quindi, in qualità di intermediario, rifornendo prestigiosi musei, rinomate gallerie e facoltosi collezionisti con i reperti di cui la criminalità organizzata entra illegittimamente in possesso. Tuttavia, l’attività del mercante d’arte, in questo contesto, non si riduce alla mera messa in relazione delle parti e alla conclusione dell’affare. Difatti, l’intermediario assolve, molto spesso, il compito abituale di occultare la provenienza illegittima del bene e di immetterlo sul mercato fornendo un “pedigree” della res in modo da renderla conforme alla legge” [21].

Senza voler demonizzare la categoria dei commercianti e dei mercanti d’arte, è, però, opportuno rilevare, che agli operatori professionali del settore (art. 1176 co. 2 c.c.) è richiesto un elevato grado di diligenza [22], non sempre conciliabile con la velocità che oggi il mercato richiede, con riferimento alla verifica della lecita provenienza dei beni d’arte, e che non possono essere ritenute sufficienti le dichiarazioni loro fornite in proposito dai venditori.

Sul punto la Suprema Corte con la recente sentenza (Cass. Pen. III sez. del 2 gennaio 2019 n. 22) relativa al caso dell’Atleta Vittorioso di Lisippo ha evidenziato che: “invero non può trascurarsi di considerare che chiedere conferme in ordine alla legittimità di una compravendita a soggetti che seppur ampiamente qualificati professionalmente, erano istituzionalmente preposti alla  tutela degli interessi del venditore, costituisce un comportamento per l’acquirente connotato quanto meno da una inspiegabile ed ingiustificabile leggerezza”; e che “dagli atti risulta che l’Amministrazione del Getty Museum non fece, accontentandosi dei soli elementi informativi ad essa forniti dalla parte venditrice e, pertanto, legittimamente considerati dal Tribunale di Pesaro non indipendenti.

Ancora più di recente, con la sentenza n. 11269, del 2 aprile2020, la terza sezione della Corte di Cassazione Penale nel pronunciarsi sulla confisca del messale rubato nel 1925 dalla chiesa parrocchiale di Frontale, frazione di Apiro, nel Maceratese, e ora nella collezione della Morgan Library & Museum di New York ha ribadito che “al terzo deve fare carico, [omissis] in particolare l’onere della prova, nell’ipotesi di collegamento del proprio diritto con l’altrui condotta delittuosa, dell’affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza.

Per rendere il commercio più trasparente sono stati creati dei database di raccolte di immagini e di informazioni relative alle opere d’arte rubate, come lo Stolen Works of art database di Interpol, l’OCBC francese, o la Banca Dati dei beni culturali illecitamente sottratti del Comando Carabinieri T.P.C., IPHAN, UNODC, WCO, Getty Provenance Index o Smithsonian Provenance Research Initiative, ICOM Red List, l’Art Loss Register. A questi, da poche settimane si è aggiunta anche la app ID-Art di Interpol [23] accessibile anche da tablet e smartphones.

La consultazione è uno degli elementi da valutarsi per verificare l’adempimento di un’esaustiva due diligence ai sensi dell’art 4 n. 4 della Convenzione Unidroit.

Va tuttavia sottolineato che la sola consultazione da parte del possessore dei registri, per affermare la sua buona fede o l’estraneità ad un reato, non è sufficiente, in quanto manca ancora una norma che preveda l’obbligatorio e tempestivo inserimento nelle banche dati delle opere di provenienza illecita da parte di tutti i soggetti deputati alla ricezione delle denunce (Carabinieri, Polizia e Procure della Repubblica).

Oggi l’inserimento è effettuato soltanto dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Resta, poi, il limite del censimento delle opere sottratte per cui non vi è documentazione fotografica o vi sono immagini risalenti e di pessima qualità, nonché delle opere trafugate prima della creazione del data base.

Addirittura, agevolata da un sistema, purtroppo, ancora lacunoso, “la delinquenza di settore arriva ad interpellare pretestuosamente le banche dati esistenti, tutte le volte che sa che il bene non è o non può per le sue caratteristiche che essere iscritto nelle stesse” e anzi queste “possono, inoltre, invogliare il successivo acquirente mostrandogli l’interrogazione alla banca dati a dimostrazione della legittimità della transazione in corso” [24].

Potranno soccorrere, in via analogica, la previsione di cui all’art. 79 del Codice dei Beni Culturali, che prescrive che “per determinare l’esercizio della diligenza richiesta da parte del possessore si tiene conto di tutte le circostanze dell’acquisizione, in particolare della documentazione sulla provenienza del bene, delle autorizzazioni in uscita prescritte dal diritto dello Stato membro richiedente, della qualità delle parti, del fatto che il possessore abbia consultato o meno i registri accessibili dei beni culturali rubati e ogni informazione pertinente che avrebbe potuto ragionevolmente  ottenere o di qualsiasi altra pratica cui una persona ragionevole avrebbe fatto ricorso in circostanze analoghe” e anche l’art. 4.4 della Convenzione Unidroit che recita: “al fine di determinare se il possessore abbia agito con la dovuta diligenza, si terranno in conto le circostanze dell’acquisto ed in particolare: la qualità delle parti, il prezzo pagato, la consultazione da parte del possessore di ogni registro ragionevolmente accessibile di beni culturali rubati ed ogni altra informazione e documentazione pertinenti che esso avrebbe ragionevolmente potuto ottenere, nonché la consultazione di organismi ai quali poteva avere accesso o ogni altro passo che una persona ragionevole avrebbe effettuato nelle stesse circostanze.

Come è stato stabilito nel caso dell’Atleta di Fano, sembra prioritaria, però, la preliminare verifica, dei documenti, di formazione di terzi, che autorizzano l’esportazione o l’importazione delle opere dal paese d’origine [25] in quanto, come da tempo sostenuto, “potrà infatti integrare una condotta di riciclaggio il trasferire un oggetto (in ipotesi un bene culturale) dall’Italia ad esempio in Svizzera, al fine di occultarne la provenienza italiana ed evadere le relative disposizioni imperative” [26].

In seguito, e sulla scia di quanto già ipotizzato dalla Cassazione francese, dovrà valutarsi l’operazione nel suo complesso e la sussistenza di “circostanze sospette”.

Se un’opera d’arte, in un lasso di tempo molto ristretto (un anno o pochi mesi) passa di mano tra più operatori professionali del settore, con margini di lucro molto ridotti o azzerati, eccetto quello verso l’acquirente finale, è legittimo “sospettare” che i passaggi di proprietà non possano essere indicativi di una normale e sana circolazione dell’opera e che i trasferimenti possano avere il solo fine patologico di mettere distanza tra il bene e il reato presupposto e allontanare l’attenzione dalla vera provenienza, dal legittimo proprietario e dal paese di origine dell’opera.

L’andamento del mercato, come è pacificamente rilevabile dai portali che raccolgono i dati delle opere vendute nelle aste internazionali [27], attesta che è raro, improbabile, se non impossibile, che in un breve lasso di tempo, un’opera di paternità certa possa registrare un’impennata di valore assai rilevante e ciò, conseguentemente fa presumere che se un dipinto è stato scambiato tra “professionisti“, ossia soggetti che operano sul mercato con fine di lucro, in poco tempo, e ha raddoppiato, triplicato o quadruplicato il suo valore a dispetto dei dati delle transazioni pubblicate, è probabile, presumibile o, quanto meno, sospetto che i vari passaggi di proprietà non siano frutto di scambi commerciali leali e frutto di un normale equilibrio di mercato, ma viceversa indizio di un’operazione di ‘ripulitura’ di un’opera.

Come già dal 2011 è stato teorizzato dal Nucleo Tutela Patrimonio Culturale nel suo decalogo [28], bisogna, infatti, diffidare dell’«affare» o di chi l’«affare» l’ha fatto pochi mesi o pochi giorni prima.

Le opere d’arte si vendono al loro valore di mercato, un mercato in cui transazioni effettuate tramite le case d’asta sono dati “pubblicati” e accessibili tramite portali online gratuiti o a pagamento e a cui ogni operatore professionista del settore o collezionista ha accesso e familiarità.

Un altro tema decisamente rilevante come indicatore di sospetto è quello della mancanza del certificato di autenticità.

Nessun operatore professionale acquisterebbe mai un’opera di paternità incerta o controversa se non con la consapevolezza che acquistarla a un prezzo vile potrebbe garantirgli, magari anche in mercati paralleli e non trasparenti o leciti, di rivenderla senza rischi a un prezzo talmente “vantaggioso” da giustificare il rischio di vedersi imputato in un eventuale procedimento per contraffazione.

Come ha stabilito la Cassazione francese a proposito del dipinto Portrait de la femme au chien di Marie Laurencin, un indicatore di sospetto è stato individuato nell’aver messo in commercio l’opera con un titolo diverso da quello indicato sul catalogo ragionato.

Questa, come altre “discrepanze” descrittive o di riproduzione dell’immagine, sono elementi imperdonabili ad un operatore professionale del mercato.

In dottrina è stato evidenziato, anche, che “di frequente la delinquenza di settore “introduce” fittiziamente un reperto archeologico in una collezione al fine di conferirgli una legittima provenienza e di celare la recente acquisizione da scavo clandestino. Ed affermare che il bene stesso proviene da quella collezione mentre a quell’universitas non è mai appartenuto” [29]  e che l’“attribuzione di reperti a collezioni private, con relativa pubblicazione, è anche una delle principali tecniche usate dai trafficanti per ripulire pezzi di provenienza illecita prima di immetterli nel mercato legale” [30].

Per quanto riguarda le acquisizioni da parte dei musei, devono, inoltre, essere rispettati i dettami contenuti nel Codice Etico di ICOM International Council of Museum, che ogni aderente si è impegnato a rispettare.

In particolare “nessun oggetto o esemplare deve essere acquisito per acquisto, dono, prestito, lascito o scambio, se il museo acquirente non ha la certezza dell’esistenza di un valido titolo di proprietà. Il titolo di proprietà legale in un paese non costituisce necessariamente una valida prova di proprietà(art. 2.2).

I Musei aderenti, inoltre, “prima di procedere all’acquisizione di un oggetto o esemplare offerto in vendita, dono, prestito, lascito o scambio, le amministrazioni responsabili sono tenute ad accertarsi con ogni mezzo che esso non sia stato illecitamente acquisito nel (o esportato dal) paese di origine o in un paese di transito, dove potrebbe aver avuto un titolo di proprietà legale (compreso il paese del museo stesso). A questo riguardo esiste un obbligo di doverosa diligenza per ricostruire l’intera storia dell’oggetto dalla sua scoperta o produzione” (art. 2.3.).

Anche queste norme di comportamento, tuttavia, non sono recepite in alcuna norma di cogente di legge e, così, il J. Paul Getty Museum, che è pure è un membro istituzionale di ICOM, e ha subito un provvedimento di confisca, per l’Atleta Vittorioso nel 2019 (Cass. Pen. n. 22/2019), non l’hai mai restituito.

Va aggiunto che “ancora oggi l’acquisto di opere d’arte di dubbia provenienza non è sottoposto a condanna sociale così forte. Comprare oggetti trafugati o saccheggiati è considerato troppo spesso un perdonabile passo falso anziché venire riconosciuto come un reato” [31].

Se un tale atteggiamento per un privato comporta, un modesto stigma sociale, per un Museo è, o dovrebbe, essere ben altra cosa, tant’è che proprio in questi giorni il Louvre ha messo online il catalogo di quasi tutte le opere facenti parte delle sue collezioni [32] anche per facilitare l’eventuale presenza e rivendica di opere razziate ai legittimi proprietari, ritenendo che la ricerca sulla provenienze sia “senza dubbio la principale questione che i musei dovranno affrontare nei prossimi anni per mantenere la loro credibilità”.

Note

[1] R. Saviano, Gomorra, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A, 2006, pag. 281.

[2] https://www.lastampa.it/cronaca/2016/10/01/news/saviano-oggi-i-clan-usano-l-arte-al-posto-del-denaro-lascia-meno-tracce-1.34813825, consultato il 3 giugno 2021.

[3] K.  Marx, Ökonomisch­philosophische  Manuskripte  aus   dem  Jahre  1844;  tr.  it. Manoscritti economico­filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968.

[4] https://issuu.com/theantiquitiescoalition4/docs/reframining_us_policy_on_the_art_market/44, consultato il 2 giugno 2021.

[5] Il contributo della Due Diligence nella lotta al riciclaggio di denaro sul mercato dell’arte, in Domenico di Micco, Marcilio Franca Filho e Geo Magri, “Circolazione, cessione, riciclaggio. Alcuni profili giuridici dell’arte e del suo mercato”,  https://www.collane.unito.it/oa/items/show/46, consultato il 2 giugno 2021.

[6] “La riservatezza, però, non ha retto davanti alla High Court di Londra: chiamata a pronunciarsi relativamente alla vendita del ‘Calanque de Canoubier’ di Paul Signac (Linda Hickox v Simon Dickinson, Simon C Dickinson Ltd [2020]), ha condannato il noto mercante a rivelare l’identità del compratore e i dettagli della vendita non riconoscendo che «la privacy degli acquirenti e la loro preoccupazione di evitare la pubblicità sulla portata della loro ricchezza e dei loro beni» fosse una considerazione dirimente e una prassi consolidata.” G. Gatti, Privacy sì ma dipende, Il Giornale dell’arte [online], https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/private-sales-privacy-s-ma-dipende/135446.html?fbclid=IwAR1-. YYd_ANZLCmpj3FFvLHGWjKOAUbRveJ05o4TpdkMvVT32duNPIPzFIvM, consultato il 1 giugno 2021.
Law enforcement officials and even some art merchants now say that excessive secrecy has become a drawback because more and more money launderers have discovered that the art market can be used as an easy conduit” T. Mashberg, The art of Money Laudering, Finance & Development, September 2019, vol. 56, no. 3 https://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2019/09/the-art-of-money-laundering-and-washing-illicit-cash-mashberg.htm, consultato il 2 giugno 2021.

[7] “L’importanza quantitativa del fenomeno è dimostrata e, se vogliamo, giustificata dal fatto che si tratta di beni ‘forti’, che assicurano una notevole redditività dell’investimento e una pressoché assoluta garanzia di non riconoscibilità della provenienza del denaro utilizzato per l’investimento già così erano definiti da G. Amato, Il riciclaggio dei profitti delle attività illecite, con particolare riguardo agli investimenti in opere e oggetti d’arte: nuove prospettive sanzionatorie ed investigative, Il Foro Italiano, 1994, Vol. 117, PARTE QUINTA: MONOGRAFIE E VARIETÀ (1994), pp. 219/220-225/226.

[8] M. Pirrelli, Greco: l’arte e lo spettro delle Mafie, Il Sole 24 ore [online], https://www.ilsole24ore.com/art/greco-l-arte-e-spettro-mafie-ADPEnnV, consultato il1 giugno 2021.

[9] In finanza il termine ‘blue chip‘ viene usato per descrivere le aziende leader nel loro mercato di riferimento, le cui azioni hanno un valore tendenzialmente stabile. Allo stesso modo, le opere d’arte blue chip sono quelle che sono state create dagli artisti ampiamente riconosciuti, la cui posizione nel mercato delle aste si è consolidata sia in termini numerici sia in termini di risultati nel corso di diversi anni.

[10] https://www.justice.gov/usao-mdpa/pr/pennsylvania-man-sentenced-sixty-three-months-federal-prison-drug-distribution-and, consultato il 2 giugno 2021.

[11] https://www.phillymag.com/news/2015/08/09/nathan-nicky-isen-art-philadelphia/

[12] https://www.christies.com/features/Monumental-collage-by-Beeple-is-first-purely-digital-artwork-NFT-to-come-to-auction-11510-7.aspx

[13]  G. Amato, op. cit.

[14] M. Croce, Il patrimonio archeologico italiano tra commerci illegali e restituzioni internazionali, pag. 133 ss, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 2 aprile/giugno 2017, http://www.carabinieri.it/Internet/ImageStore/Magazines/Rassegna/Rassegna%202017-2/mobile/index.html#p=135, consultato il 2 giugno 2021.

[15] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal,  pag. 125.

[16] P.G. Ferri, Traffico illecito del patrimonio archeologico, Internazionalizzazione del fenomeno e problematiche di contrasto, Atti del 7° Convegno Internazionale CCTPC (Roma, 25–28 giugno 2001), in BNum, Suppl. n. 38, 2002, pp. 125–142, consultato il 1 giugno 2021.

[17] P.G. Ferri , Brevi osservazioni sulla tutela penale dei reperti archeologici, AES Arts+Economics n. 7 del gennaio 2020, in https://aesartseconomics.home.blog/2020/01/29/aes7-gennaio-2020/ , consultato il 1 giugno 2021.

[18] G. Amato, op. cit.

[19] T. Cevoli, Storia senza voce, 2020, Centro Studi Criminologici in collaborazione con Liberarcheologia e con l’Osservatorio Internazionale Archeomafie,  https://www.criminologi.com/web/wp-content/uploads/2020/05/T_Cevoli_Storia_senza_voce_CSC_2020_EBOOK_EDIZIONE_2.pdf, consultato il 1 giugno 2021.

[20] F. Ziza, Addicted. Musei tra arte e crimine, Città aperta edizioni 2008, https://www.academia.edu/8222324/Addicted_Musei_tra_Arte_e_Crimine, consultato il 2 giugno 2021.

[21] A. Cinque, L’arte del delitto. La responsabilità penale del mercante d’arte alla luce del mancato completamento dell’iter di esame del disegno di legge (DDL S. 882), https://dirittopenaleuomo.org/contributi_dpu/larte-del-delitto/ consultato il 1 giugno 2021.

[22] Un esperto “saprà certo valutare la possibile provenienza del bene, il reale valore dello stesso, e rappresentarsi al momento dell’acquisto la possibilità che il bene sia stato di proprietà del venditore o almeno da questo regolarmente acquistato… Colui che acquista per diletto, senza grosse cognizioni, avrà minori elementi per valutare il suo acquisto” M. Comporti, Per una diversa lettura dell’art. 1153 cod. civ. a tutela dei beni culturali, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995.

[23] https://www.interpol.int/Crimes/Cultural-heritage-crime/ID-Art-mobile-app

[24] P.G. Ferri  op. cit. nota 6.

[25] Difettando tale verifica l’acquirente non può affermare la sua buona fede. Si veda: Markus Müller-Chen, Grundlagen und ausgewählte Fragen des Kunstrechts, ZSR 2010 II, pag. 95. In Svizzera gli operatori debbono infatti compiere precisi accertamenti sulla provenienza del bene culturale; non essendo sufficiente al riguardo eventuali assicurazioni offerte dal dante causa. Ciò perché, altrimenti, vengono ritenuti in mala fede rispetto all’acquisto e non possono neppure beneficiare del time-limit che invece loro competerebbe, mai comunque riconosciuto all’autore dell’illecito (questi stessi principi hanno poi ispirato la legislazione federale svizzera sul ‘trasferimento internazionale dei beni culturali’ del 20 giugno 2003) in P.G. Ferri, Uscita o esportazione illecita. Brevi cenni alle problematiche di maggiore rilievo in tema di beni culturali, La Tutela per i Beni Culturali. Aspetti Giuridico-operativi (Atti del Convegno 8 marzo 2007), BNum, Suppl. n. al n. 48_49 (2007), pp. 75-89, https://www.numismaticadellostato.it/pns-pdf/BDN/pdf/SUPNUM48-49.pdf, consultato il 1 giugno 2021.

[26] P.G. Ferri, Il traffico illecito di reperti archeologici in ambito interno ed internazionale. Possibilità di contrasto, Atti del 7° Convegno Internazionale CCTPC (Roma, 25–28 giugno 2001), in BNum, Suppl. n. 38, 2002, pp. 125-142, consultato il 1 giugno 2021.

[27] Artprice, Artnet, Barneby’s, Acadja, Arsvalue, per citare i più noti.

[28]  In http://www.carabinieri.it/cittadino/consigli/tematici/beni-interesse-culturale/beni-culturali-decalogo.

[29] P.G. Ferri, op. cit. nota 25. 

[30] D. Gervasi, Musei pubblici e mecenatismo: il caso dell’acquisizione della collezione C.A., Archeomafie, anno IX, n. 9 (2017).

[31] N. Charney, Il museo dell’arte perduta, Johan & Levi Editore, 2019, pag. 43.

[32] https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/il-louvre-indaga-se-stesso/135978.html.

[Da Filo Diritto, 7 giugno 2021].

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