Il furto al Museo Civico di Castelvecchio: luci e ombre di un noto caso internazionale

A partire dalla fine degli anni Cinquanta i furti di opere d’arte realizzati all’interno dei musei sono diventati sempre più frequenti, anche a causa della rapida ascesa dei prezzi nel mercato dell’arte, che si è affermata di pari passo rispetto all’idea che i capolavori del passato avessero un valore in continua crescita

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Secondo il Pactical Assistance Tool elaborato dallo UNODC nel 2016, il furto di opere d’arte, pubbliche o private, comporta la rimozione e appropriazione illecita e intenzionale di beni culturali mobili provenienti da musei, collezioni private, biblioteche o altre istituzioni culturali, monumenti o siti archeologici, e rappresenta un danno e un rischio per la conservazione e la protezione dei beni culturali, nonché un’offesa distinta e più grave rispetto al furto ordinario.

Tra le principali categorie di autori di furti d’arte delineate dal Generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Nistri nel paper The Experience of the Italian Cultural Heritage Protection Unit, risulta particolarmente rilevante quella che comprende i casi in cui individui altamente specializzati, appartenenti a gruppi criminali che operano in molteplici aree territoriali, commettono furti per ottenere un profitto economico tramite la vendita degli oggetti d’arte illecitamente sottratti durante l’azione criminale.

A quest’ultima categoria è riconducibile un noto caso di furto d’arte di rilievo internazionale, avvenuto presso il Museo Civico di Castelvecchio, a Verona, il 19 novembre 2015. Il furto, che ebbe un valore complessivo di circa 15 milioni di euro, provocò l’illecita rimozione e appropriazione di 17 opere, tra cui spiccano capolavori di Rubens, Bellini, Pisanello, Mantegna e Tintoretto.

Le investigazioni sulle dinamiche del fatto provarono che il furto fu pianificato e realizzato da una vera e propria organizzazione criminale composta da membri di origine italiana e moldava. Grazie alle registrazioni effettuate dalle telecamere di sorveglianza, tra i componenti dell’organizzazione che la sera del 19 novembre 2015 fecero irruzione vennero individuate tre persone col volto coperto e armate, che entrarono da una porta laterale del museo. Quella sera, però, l’allarme non scattò. Infatti, l’operatore alla vigilanza del museo era a tutti gli effetti un componente del gruppo criminale che partecipò alla pianificazione del furto e fornì le informazioni necessarie riguardanti la struttura del museo.

Le indagini che si aprirono dopo il furto si focalizzarono fin da subito sulla eventualità che i dipinti sarebbero stati illecitamente esportati verso l’Europa dell’Est. Il Comando Centrale Operativo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e la Squadra Mobile della Polizia di Stato di Verona, sotto il coordinamento della Procura di Verona, effettuarono interrogatori ai testimoni, analizzarono i filmati delle telecamere di sorveglianza e intercettarono le comunicazioni tra i membri dell’organizzazione criminale. 

A seguito del furto, furono elencate e controllate singolarmente tutte le chiamate effettuate nell’area territoriale compresa tra Verona e la zona, nei pressi di Brescia, nella quale fu abbandonata l’auto dei malviventi e, oltre a ciò, furono monitorati migliaia di numeri di telefono, dato che ogni settimana i ladri cambiavano le loro schede telefoniche.

Nel frattempo, l’INTERPOL registrò immediatamente i quadri sullo Stolen Works of Art Data, inviò un allarme attraverso la piattaforma ARCHEO della WCO e un allarme speciale a tutti i paesi membri dell’INTERPOL e, infine, pubblicò un poster speciale dei dipinti rubati. 

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Dopo alcune settimane, il 15 marzo 2016 vennero arrestati cinque individui in Moldavia e sette in Italia, perché sospettati di appartenere all’organizzazione criminale che pianificò il furto. I quadri, tuttavia, rimasero in possesso di altri due criminali che erano riusciti a fuggire in Ucraina. A quel punto, tutte le informazioni raccolte dalle autorità italiane e moldave furono condivise con le forze dell’ordine ucraine e, dopo quasi due mesi, il 6 maggio 2016, i quadri furono finalmente ritrovati dalla polizia ucraina all’interno di sacchi di plastica nascosti sotto i cespugli e le sterpaglie di un’isola situata in un’insenatura del fiume Dnestr, nella regione di Odessa.

A seguito del ritrovamento e dell’autenticazione dei dipinti, furono avviate le procedure di rimpatrio. Tuttavia, queste ultime furono particolarmente lente e macchinose. Lo Stato italiano decise, dunque, di inviare alle autorità ucraine una lettera avente ad oggetto la richiesta di Assistenza Legale Reciproca per accelerare il processo di restituzione ed evitare ulteriori ritardi.

Tale misura si collocò in un contesto in cui non mancarono polemiche indirizzate alle autorità ucraine, le quali inizialmente spiegarono che le opere ritrovate dalle forze speciali della polizia ucraina erano state conservate in un primo momento nella residenza dell’allora Presidente dell’Ucraina Petro Poroshenko e successivamente nel Museo d’Arte Occidentale e Orientale Bogdankhamenko. Tuttavia, nei mesi seguenti, ciò che alimentò i dissidi tra le Parti fu la completa perdita di informazioni relative al luogo in cui le opere erano situate e il progressivo prolungamento delle tempistiche per il rimpatrio (fattori che, tra l’altro, indirizzarono al Capo di Stato ucraino denunce per appropriazione indebita e ricettazione).

Tuttavia, anche grazie all’intervento di Eurojust, la vicenda giunse all’epilogo il 21 dicembre 2016, quando i dipinti vennero restituiti allo Stato italiano sulla base delle indicazioni contenute nella richiesta di Assistenza Legale Reciproca, proprio pochi giorno dopo la condanna dei criminali a pene comprese tra un anno e otto mesi e dieci anni e otto mesi di reclusione, irrogata dal Tribunale di Verona.

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