Il principio di universalità del patrimonio culturale e l’Art. 22 del II Protocollo

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Nella foto dell’Istituto Luce, un operaio sistema alcuni sacchetti di sabbia davanti a un particolare del Giudizio Universale dipinto sulla controfacciata nella Cappella degli Scrovegni, Padova 1944.

[…] i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, perché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale; […]

Questo estratto dal Preambolo della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato rappresenta la dichiarazione d’intenti nonché il fulcro che caratterizzerà la normativa UNESCO da lì a 70 anni in materia di protezione dei beni culturali: il principio di universalità del patrimonio culturale. Tale nozione viene espressa per la prima volta proprio all’interno di questo testo, ed essa si ripeterà anche nei preamboli di Convenzioni successive anche quelle che andranno a riguardare la ben più avanguardistica nozione di “Patrimonio Immateriale”. Eppure in maniera nemmeno troppo sottile vanno in questa, ed altre definizioni, a convogliare due principi in antitesi: quello di un patrimonio dell’umanità e quello per cui ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale.

Da un punto di vista antropologico esiste una fondamentale distinzione che categorizza due tipi di modelli culturali: uno universale ed uno particolare. I cosiddetti modelli universali rappresentano tutte quelle peculiarità che si possono ritrovare in più culture oppure quei denominatori comuni insiti nell’essere umano tra i quali ad esempio la capacità di usare simboli in fase di inculturazione oppure la famiglia nucleare quale mattone della società.
I modelli culturali particolari sono chiamati specificità culturali ed indicano un tratto o una caratteristica culturale che non è generalizzata o diffusa, bensì risultante confinata ad un singolo luogo, cultura o società. Qualora questi tratti non siano in contrapposizione con i valori culturali di un’altra società è possibile che questa possa adottarli reintegrandoli in nuovi schemi, adattandoli così alla cultura ospitante.

Dati questi presupposti ci si chiede dunque quanto una cultura sia in grado di accettarne un’altra, in particolare quando essa è distante, non tanto nello spazio quanto nel tempo. È più facile, infatti, che un processo diffusivo avvenga in tratti culturali “coevi” (es. “globalizzazione”), mentre le aggressioni ai beni culturali si basano su un fondamento diacronico che rifiuta l’eredità culturale e mira alla cancellazione della memoria storica.    
Parlare di un “patrimonio dell’umanità” significa chiedere di superare le particolarità culturali in favore di un “patrimonio universale”, quando questo per natura stessa dell’uomo è inconcepibile in virtù di ereditarie specificità culturali che invece rappresentano la vera ricchezza dell’umanità.
I conflitti successivi alla Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato tra cui la guerra Iran-Iraq, la Prima Guerra del Golfo, i conflitti balcani e le guerre afghane, hanno visto un ricco coinvolgimento di beni culturali e questo rappresenta un fallimento non tanto della Convenzione quale strumento tecnico, quanto proprio del principio di universalità del patrimonio culturale che è venuto evidentemente a mancare.

È possibile dunque che il principio di universalità sia da contestualizzare al secondo dopoguerra al fine di spingere le Patri Contraenti a considerarsi direttamente responsabili della salvaguardia dei beni culturali anche degli altri belligeranti e per fare in modo che questo accadesse occorreva, prima di tutto, superare le singolarità culturali che portavano a deliberate aggressioni nei confronti dei beni del nemico. È inoltre evidente come sia sottintesa la volontà da parte dei redattori di evitare che implicazioni etniche o razziali facessero dei beni culturali un obiettivo pagante. Sebbene dunque la Convenzione sia stata redatta con fini propositivi, essa si fa carico di modalità belliche obsolete e già nel 1993 era stata denunciata la scarsa ampiezza dell’ambito di applicazione della Convenzione tale da non comprendere tutte le categorie di beni culturali bisognose di protezione e di tutti i possibili scenari bellici.

Lo scopo della redazione del II Protocollo era quello di uniformarsi alla recente storia bellica in continuo mutamento. Questo infatti avrebbe rappresentato un ostacolo all’applicabilità della Convenzione. Il rischio in questo senso era considerato concreto con l’avvento dei “conflitti misti” altrimenti detti “conflitti interni internazionalizzati”.

L’Art. 22 ha il ruolo di estendere l’ambito di applicabilità anche ai conflitti non internazionali seguendo così i più recenti orientamenti dei diritti umani relativi ai conflitti non internazionali rappresentando essi la peculiarità dei moderni conflitti armati. Esso si fa carico della comprensione di come le realtà belliche moderne siano decisamente più fluide lasciando spazio a molteplici scenari bellici. Elemento determinante in questo contesto, al di là degli interventi internazionali, sono la modalità di formazione dei conflitti interni spesso contraddistinti dalla costituzione di una forza di ribellione, priva dunque di qualsiasi riconoscimento a livello internazionale, e come tale autolegittimata a privarsi di qualsiasi obbligo legislativo anche nei confronti dei trattati ratificati dalla nazione di appartenenza. Purtroppo ed inevitabilmente, qualora a tale presupposto si uniscono motivazioni legate a recrudescenze etniche, i beni culturali diventano obiettivi paganti sfociando in episodi di iconoclastia o, peggio ancora, pulizia culturale. Ruolo dei governi locali e delle altre forze di occupazione è quello dunque di porsi a baluardo di questa prospettiva. I primi attuando le direttive poste dal Protocollo in materia di attività preventiva, i secondi agendo secondo le direttive esposte nella Convenzione con particolare attenzione alle imposizioni previste dal principio della “necessità militare”.

Ciò significa che l’ambito di applicazione dell’Art. 22 è circoscritto alla possibilità che almeno una nazione terza partecipi al conflitto. Inoltre siamo fuori dal campo di applicazione dell’Art. 3 del II Protocollo in quanto l’organizzazione formatasi, ovviamente, non è uno Stato e non ha dunque la facoltà di accettare le disposizioni previste dalla Convenzione e dal II Protocollo.
Se è vero che il 70% del danno arrecato al patrimonio culturale di una nazione in guerra è causato da saccheggi e scavi clandestini, gli atti di rappresaglia e le aggressioni iconoclaste rappresentano una minaccia in egual misura.

La normativa internazionale ha fornito gli strumenti necessari per tamponare quanto più possibile le eventualità di aggressione al patrimonio culturale, ma non sarà mai sufficiente finché ad un sistema normativo non si affiancherà un comune senso di solidarietà culturale tale da spingere alla cura di ogni eredità culturale. Ci si chiede quanto ancora manchi per arrivare a questo risultato.

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