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di Luca Sasdelli

La tutela

È ben noto che le attività di tutela dei beni culturali (tra cui rientrano, dopo la ratifica del Codice Urbani, anche le navi di interesse storico e quelle che hanno più di 75 anni di età) spettino alle competenti soprintendenze archeologiche, comprendendo la ricerca, lo scavo ed il recupero dei beni in tutto il territorio nazionale, incluse le acque interne e quelle marittime. Queste attività rientrano nei compiti istituzionali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ai sensi del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali di cui al decreto legislativo n. 42/2004. È altrettanto risaputo però che, per carenza di provvedimenti organici e per l’attitudine culturale a considerare prioritarie le ricerche sulla terraferma, l’attività di ricerca subacquea sia stata solo occasionalmente oggetto di attenzione da parte delle strutture ministeriali. Sostanzialmente si ritiene che i beni sommersi siano più al sicuro di quelli sulla terraferma. Questo preconcetto, tuttavia, dovrebbe essere rapidamente superato, visto che oggi i processi tecnologici consentono l’agevole recupero dei giacimenti culturali presenti in modo significativo nelle acque territoriali, cosa che prima non era possibile per i limiti connessi alle tecnologie stesse. Non è un caso che oggi si “scoprano” (anche se spesso si tratta di riscoperte) molti relitti un tempo dispersi.

I danni dei “dilettanti” 

Questi progressi tecnologici, nel momento in cui giungono alla portata di “chiunque”, fanno sì che gli stessi giacimenti culturali, se non tutelati e recuperati dalle competenti autorità preposte, restino inevitabilmente esposti a ricerche clandestine e quindi a furti – vedasi la vicenda assai nota del prezioso carico sul relitto del piroscafo Polluce. Va inoltre registrato un interesse sempre crescente per questo specifico settore della ricerca archeologica da parte di persone non ufficialmente preposte a svolgere il compito. Ciò, da un lato, consente una rilettura della storia sulla base dei risultati dei ritrovamenti, ma dall’altro, paradossalmente, presenta il rischio di produrre danni irreversibili al patrimonio archeologico e storico qualora le ricerche e i ritrovamenti non siano condotti con criteri scientifici. Il fenomeno è ampiamente conosciuto e le stime parlano di migliaia di relitti di navi, alcune persino risalenti al primo millennio avanti Cristo, presenti in prossimità delle nostre coste e quindi potenzialmente a rischio danneggiamento. Lo stesso Consiglio d’Europa se ne è occupato sin dal 1978 con la raccomandazione n. 848 dello stesso anno; l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con la Convenzione sul Diritto del Mare svoltasi a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e resa esecutiva nel nostro Paese dalla legge n. 689 del 2 dicembre 1994, ha raccomandato agli Stati di estendere agli spazi marini la legislazione nazionale relativa ai ritrovamenti archeologici. Si ipotizza che il patrimonio sommerso possa consistere in un numero di beni ancora maggiore rispetto a quelli conservati in tutti i musei di Francia, Grecia, Italia e Spagna messi insieme! Ciò è di particolare rilievo per il nostro Paese che, per ragioni storiche e geografiche, è quello in cui è presumibile che esistano le più significative presenze sommerse. E sufficiente ricordare al riguardo alcuni clamorosi ritrovamenti, come i Bronzi di Riace, la nave romana rinvenuta intatta nelle acque antistanti l’antica città di Aquileia, nonché il ritrovamento di altre statue bronzee nel mare di Brindisi e il satiro danzante di Mazara del Vallo, casualmente rimasto impigliato nelle reti di pescatori del luogo. Ovvio quindi che la ricerca “abusiva” non sia permessa.

La ricerca

Data l’evidente la necessità dello Stato di difendere il suo patrimonio sommerso, torniamo alla domanda iniziale che ogni subacqueo si pone mentre sogna di trovare un relitto vergine: «posso fare ricerche?» Prima di tutto bisogna chiarirsi le idee riguardo al termine: cosa si intende per “ricerca”? Non è possibile fornire una definizione esaustiva, che comprenda e risolva tutte le ipotesi prospettabili nella realtà; si possono tuttavia tracciare delle “linee guida”. In primo luogo nel concetto di “ricerca di un relitto” è insito il principio di “trovare”, “cercare” o “scoprire” qualcosa di ignoto, sconosciuto, mai esplorato prima. In termini legali pare pertinente che si debba parlare di ricerca solo quando si opera per ritrovare un “quid novi”. In parole semplici si può dire che per parlare di “ricerca” si debba prospettare il caso di un bene ignoto sia nella consistenza o ubicazione, o noto nella consistenza ma di cui è ignota l’ubicazione o, nota l’ubicazione ne è ignota la consistenza. È evidente quindi che non si possa parlare di “ricerca” laddove ci si trovi di fronte ad un bene noto ed ubicato in un luogo conosciuto. Questi relitti sono visitabili senza problemi. Ma la definizione di ricerca comporta anche il dovere chiarire cosa significhi “conosciuto”. Contrariamente a quanto possano pensare molti subacquei, “conosciuto” non significa che qualcuno, genericamente, già ne sia a conoscenza, o che sia apparso su una rivista o su Internet. I principi generali in materia di beni culturali sanciscono che un bene di cui siano noti ubicazione e consistenza può essere considerato bene culturale “rinvenuto” solo se sia stato già segnalato alle competenti autorità. In definitiva, quindi, si intende “oggetto di ricerca” un bene culturale anche nel caso che detto bene sia noto ad una o più persone (ad esempio i pescatori di un certo tratto di mare), ma non sia stato mai segnalato alle competenti autorità. Si tratta di ricerca quindi anche nel caso in cui un pescatore accompagni un subacqueo su una afferratura non segnalata alle autorità. È facile comprendere la ragione di tale principio: l’autorità pubblica, non essendo stata debitamente informata ai sensi dell’art. 90 (scoperte fortuite), non ha potuto intraprendere le iniziative più idonee a tutela del bene, che così rimane esposto al danneggiamento o al saccheggio. Diversamente se il bene è “noto” nei termini sopra indicati e ne è stata quindi data doverosa segnalazione alle autorità competenti, lo stesso può essere cercato e visitato. In tal caso infatti, fermo restando che è punito il furto o il tentato furto di beni culturali, pare non potersi sopprimere un “diritto di visita” da parte di chi sia interessato alla visione di tale bene; ciò, ovviamente, se non in contrasto con eventuali provvedimenti amministrativi (quali ordinanze della Capitaneria di Porto) posti a tutela e salvaguardia del bene stesso. 

Condotta della ricerca

Chiariti i termini con i quali possa essere definito il bene oggetto della ricerca, resta da vedere quale sia “l’attività” di ricerca e quando la stessa violi il divieto di cui all’art. 175 del D. lgs. 42/2004 (Violazione in materia di ricerche archeologiche). Nel diritto penale vige il principio per il quale si è punibili qualora si ponga in essere una condotta potenzialmente offensiva del bene tutelato dalla norma penale (cd. “principio di offensività“). Al contrario la punibilità è esclusa quando è impossibile l’evento dannoso o pericoloso e ciò per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa. Da tale principio pare quindi desumersi che non possano essere ritenute punibili ricerche meramente documentali e storiografiche (per esempio in archivi storici aperti al pubblico) circa l’individuazione di beni culturali, fini a sé stesse. Ben diversa sarebbe da valutarsi la condotta di chi si mette in mare per la ricerca di beni culturali, sulla scorta di ricerche documentali fatte in proprio, fatte da terzi o sfruttando le conoscenze di chicchessia conseguite per esperienze personali. Insomma non agisce nel rispetto della legge chi si mette alla ricerca di un relitto sulla base di una “soffiata”. Da notare come siano perseguibili anche i soggetti che forniscono tali informazioni, qualora fossero a conoscenza degli intenti del “ricercatore abusivo”. Il fatto che chi si metta in mare “alla ricerca” sia dotato o meno di attrezzature idonee per individuare la posizione del relitto (side scan sonar, ecoscandagli sofisticati, ecc.) e per il raggiungimento delle profondità necessarie (ROV, attrezzature trimix, ecc.) sono elementi importanti per provare che si è in presenza di una ricerca non autorizzata, ma ciò non è sempre necessario. Nel caso in cui un bene fosse casualmente rintracciabile su un basso fondale, si opererebbe infatti una ricerca abusiva anche in assenza di materiale tecnologico particolarmente sofisticato. Ci preme sottolineare come la divulgazione della “scoperta” di nuovi relitti sia talvolta accompagnata da foto di elementi pertinenti (campana, parti del carico, ecc.) portati contestualmente in superficie, prova evidente di un danno ormai già procurato al bene dello Stato. Vige il divieto assoluto di asportare oggetti da siti archeologici e/o relitti, in quanto detti beni fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato. In caso di asportazione di parte di relitti o dei reperti in essi contenuti si andrà incontro al reato di impossessamento di beni culturali, punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da Euro 31 ad Euro 516,50. Si cade quindi nel penale. A parziale mitigazione di tale principio e pur sempre nel rispetto del superiore e fondamentale principio di cui all’art. 91 che proclama che i beni di cui all’art. 10 del citato D. Lgs. “da chiunque ed in qualunque modo ritrovati nel sottosuolo o nei fondali marini appartengono allo Stato…”, con l’art. 90 si disciplinano le “scoperte fortuite” dei beni e gli obblighi che incombono sullo scopritore, riconoscendo però a questi un “premio” secondo le regole ed i criteri di cui agli artt. 92 e 93. Ovviamente i singoli fatti di vita reale possono porre dubbi circa la natura dell’attività espletata di volta in volta dal subacqueo, ma sono questioni che troveranno la loro soluzione su come si interpreteranno i fatti accertati, restando però fermi i principi generali sopra esposti. Alla fine di queste brevi note è chiaro che qualcuno possa non essere soddisfatto dalle conclusioni. Di ciò ne è consapevole anche il legislatore e in parlamento nelle precedenti legislature sono stati presentati diversi disegni di legge aventi per oggetto proprio una più precisa regolamentazione in materia.

I relitti più recenti

Cosa succede per le navi con meno di 75 anni di età? Nel testo si cita il Codice Urbani, che tutela le navi d’interesse storico e quelle che hanno più di 75 anni di età. A questo punto qualcuno potrebbe pensare che i relitti della II guerra mondiale e più recenti non rientrino nella normativa. Ma non è così. Il codice, seppure non abbastanza semplificativo, ha dei punti cardini molto chiari: l’art. 91 del D. Lgs. 42/2004 stabilisce che le cose indicate nell’art. 10, da chiunque ritrovate e in qualunque modo nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato. Appare evidente che il relitto della II Guerra Mondiale, e quelli di epoche successive, trovandosi in acque territoriali italiane, appartengano allo Stato. Sarà quindi il competente Ministero, avuta notizia della scoperta, a dichiararne l’interesse storico e/o artistico, a vietarne la visita, ecc. Solo se dichiarato senza interesse storico e/o artistico il relitto potrà essere considerato “libero”, ma pur sempre di proprietà dello Stato Italiano.

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