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Per cercare di capire meglio il fenomeno, ho ritenuto utile stabilire un contatto ed un colloquio diretto con un “tombarolo”.

L’incontro con la persona in questione, che indicherò con le iniziali A.B., è avvenuto in un contesto di assoluto anonimato, alle ore 15 di un sabato pomeriggio del mese di Gennaio presso l’area di parcheggio di un centro commerciale sulla strada, che collega Taranto a S.Giorgio Jonico; alla presenza di altre due persone che già conoscevo, mi viene presentato un uomo di mezz’età che esordisce affermando di non potersi trattenere a lungo. Gli illustro l’obiettivo della mia intervista inerente gli scavi clandestini, soffermandomi sulla necessità di un confronto con un “esperto del settore” che mi aiuti a ricostruire le tecniche e le metodologie di scavo che i “tombaroli” solitamente utilizzano.

Nel corso dell’intervista emergono numerose interessanti informazioni, alcune al limite dell’inverosimile, che possono assumere i contorni di un vero racconto.

A.B. inizia la sua attività di scavatore clandestino nel 1962 nel territorio di Taranto, anni in cui l’alto tasso di disoccupazione (prima dell’avvento del siderurgico) costringeva molta gente a dedicarsi ad attività illecite; e gli scavi clandestini risultavano essere una soluzione veloce e con un margine di guadagno immediato.

Scavatori clandestini sondano il terreno utilizzando lo “spillone” (Foto storica)

A.B., inizialmente, si affidò a persone esperte e più anziane di lui, indagando capillarmente le aree ad est del capoluogo tarantino; in particolar modo S.Giorgio Jonico, la zona tra Faggiano e Pulsano (zona Papale), quella tra Faggiano e Talsano (Contrada Nisi), quella tra Taranto e Talsano (S. Donato) e, sul versante opposto, le zone di Ginosa e Castellaneta. Per procedere alle attività di scavo clandestino risultava fondamentale avere un’organizzazione scrupolosa. Dopo aver atteso le stagioni in cui i proprietari terrieri effettuavano l’aratura dei campi, i tombaroli si attrezzavano per ispezionare le zone in cui il terreno rivoltato restituisse materiale di interesse archeologico.

A.B. preferiva lavorare solo con un altro complice, «in tre si era già in troppi…», con il quale effettuava vere e proprie ricognizioni di superficie nei terreni interessati dalle arature. Lo scopo era quello di individuare, attraverso le tracce fornite dal terreno arato, esclusivamente necropoli, escludendo quindi i contesti insediativi come villaggi, zone abitate, strade antiche; veniva poi data più importanza a sepolture di epoca greca, ricche di corredi più importanti e facilmente commerciabili (sia per il numero dei pezzi sia per il loro valore), piuttosto che necropoli romane o medievali.

Ma come è possibile, per un “tombarolo”, individuare una necropoli da un contesto urbano in maniera così precisa e con un margine di errore pressoché nullo?

Durante la ricognizione venivano scartati i contesti che restituivano frammenti di ceramica acroma, cosiddetta da cucina, tipica di un centro urbano, ponendo l’attenzione su quella di impianti funerari; veniva raccolta e pulita sommariamente, per poi cercare di datarla cronologicamente. La conferma che fosse ceramica di uso funerario era provata da una forte presenza di calcare sul frammento rinvenuto e da una lavorazione più fine ed accurata rispetto agli impasti con altra destinazione d’uso.

Dopo aver constatato la provenienza, veniva ampliato il raggio d’azione cercando altri frammenti della stessa tipologia e, in caso positivo, l’area veniva definita come “area buona”, cioè potenzialmente da scavare, e circoscritta attraverso segnali di vario genere (un cumulo di pietre, una piccola buca o dei rami di vite accatastati). L’area buona, poi, veniva ispezionata durante le ore notturne; il numero di zone circoscritte diventava dunque direttamente proporzionale al numero di oggetti da immettere sul mercato clandestino.

Dopo questa prima fase, per gli scavatori clandestini, iniziava la parte più importante quanto rischiosa; A.B. racconta che verso l’imbrunire, o ancora meglio dopo il tramonto, si recavano verso le campagne individuate in precedenza, assicurandosi di parcheggiare il veicolo quanto più distante possibile e in modo tale da non destare sospetti. Armati di picconi, pale, torce elettriche, martelli da carpentiere, taniche di acqua e sonde a T iniziava l’attività clandestina. A.B. quindi iniziava a saggiare il sottosuolo con la sonda, mentre il complice versava acqua per ammorbidire il terreno e rendere più semplice la perforazione del suolo.

Sonde a T o “spilloni”

La sonda, rispetto a quella usata in altre zone (il cosiddetto spillone), era denominata “cavatappi”; di materiale metallico, lunga circa 160 cm, era caratterizzata da una impugnatura a T sull’estremità superiore che consentiva un controllo maggiore dello strumento e rendendo più agevole la perforazione del terreno. L’estremità opposta risultava più articolata: la punta, forgiata per la perforazione del terreno, era caratterizzata da un calibro maggiore rispetto al corpo della sonda e con una profonda scanalatura filettante sulla linea mediana “-come una vite-” che, trattenendo il terreno negli incavi, consentiva di riconoscere il materiale recuperato.

L’esperienza sviluppata consentiva di riconoscere un contesto di necropoli al solo battere della sonda nel sottosuolo e di averne conferma dopo aver controllato il materiale trattenuto dalla sonda stessa. Solitamente i residui tufacei erano attribuibili ad un impianto funerario di epoca romana, mentre le tracce marmoree riconducevano ad una tomba di epoca ellenistica.

Dopo aver individuato la sepoltura era necessario trovarne il perimetro in maniera accurata e definirne le dimensioni effettuando fori con la sonda a distanza di 15 cm l’uno dall’altro. Definito il perimetro, si abbandonava la sonda ed iniziava lo scavo.

A turno, i due scavatori clandestini, armati di pala e piccone, iniziavano a scavare fino a raggiungere la sepoltura; senza tregua, neanche per riposarsi. Dopo aver rimosso numerosi metri cubi di terreno e aver individuato il lastrone superiore, i tombaroli, utilizzando un grosso martello da carpentiere, creavano un varco in un angolo della copertura, grande abbastanza per spiare all’interno della sepoltura e capire se il corredo presente potesse rendere profitto. In caso contrario abbandonavano l’area e si spostavano passando ad un’altra zona. Nel caso in cui, invece, il corredo fosse potenzialmente redditizio, effettuavano, con il martello, un’apertura tale da consentire l’ingresso nella tomba ad uno dei due uomini che, aiutandosi con la torcia elettrica, iniziava una rapidissima cernita del corredo.

Ciò che resta dopo uno scavo clandestino

I materiali più comuni erano scartati perché difficilmente commerciabili, ma monili d’oro (ove presenti), ceramiche nere a figure rosse, crateri, unguentari, strigili, erano i pezzi più ambiti. Così, mentre un tombarolo saccheggiava il sito, l’altro provvedeva a recuperare i reperti avvolgendoli in fogli di giornale e conservandoli in capienti sacchi di corda. Finito lo scavo si dedicavano alla sepoltura successiva; così per quattro, cinque volte in una  notte.

Nel racconto A.B. ci tiene a ricordare un episodio in cui la Guardia di Finanza li scoprì in flagranza di reato mentre scavavano nelle campagne di Ginosa Marina, a ovest di Taranto.

L’episodio, unico nella sua quindicinale carriera, avvenne nel 1968. Durante l’opera di ricognizione pomeridiana all’ interno di un vitigno, A.B. notò con sospetto il frequente e ripetuto passaggio di un’auto lungo una servitù. Solo durante la notte, momento in cui tornò con il complice per scavare le tombe individuate in precedenza, realizzò che qualcuno aveva avvertito le forze dell’ordine; infatti, durante lo scavo, i due scavatori clandestini furono sorpresi dal fascio di luce proveniente da un elicottero della Guardia di Finanza e da due autovetture che si avvicinavano celermente lungo il tratturo. La fuga fu immediata verso il vicino uliveto, irraggiungibile per i mezzi terrestri delle forze dell’ordine a causa dei terreni arati.

La cattura fu evitata solo grazie alla fitta copertura fornita dagli ulivi che non consentì agli uomini dell’elicottero di individuarli; furono costretti, però, a trascorrere la notte nascosti tra i campi prima di tornare verso la propria auto, nascosta dall’altra parte del terreno agricolo e fortunosamente non ritrovata dagli uomini della Guardia di Finanza. Tuttavia, c’erano notti in cui lo scavo clandestino fruttava grossi guadagni. Il più redditizio, a detta del tombarolo, è riferibile alla notte di Natale del 1971; nonostante la festività, gli scavatori clandestini furono costretti a lavorare per conto di un facoltoso committente della zona.

In un vitigno nelle campagne della zona denominata Papale, tra Faggiano e Pulsano, lo scavo di cinque sepolture fu molto proficuo; furono rinvenuti skyphos, grossi frammenti figurati di cratere, lekane a fasce e diverse fibule decorate in oro, che fruttarono ad A.B. più di due milioni di lire, una cifra considerevole in quel periodo di scarsa e precaria occupazione.

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Dopo aver appreso tutte queste informazioni sulle modalità e sulle ragioni che inducono a praticare uno scavo clandestino, la mia attenzione si sofferma sulle modalità di stoccaggio o di immissione nel mercato illegale e sulla curiosità di conoscere se dietro ad ogni indagine notturna ci fossero dei veri e propri committenti.

A tali quesiti però le risposte di A.B. furono vaghe e poche chiare, segno che non fosse disposto a parlare di ciò che accadeva subito dopo lo scavo. L’unica notizia più interessante che mi ha svelato è che, alla fine degli anni sessanta, nell’area tarantina, erano solo quattro i consulenti che venivano contattati per l’acquisto dei materiali trafugati nella notte; per i pezzi più pregiati non era consentita, da parte dei tombaroli, la presa visione del reperto, ma veniva mostrata una foto dello stesso.

Dopo un’accurata valutazione delle offerte e dell’affidabilità dei vari acquirenti, si organizzava un incontro in zone poco frequentate per effettuare la vendita del materiale. Solitamente pezzi singoli che potessero essere gestiti più facilmente. Il commercio quindi iniziava dall’opera furtiva dei tombaroli, mossi più dalla necessità di guadagnare piuttosto che da un vero e proprio interesse per l’attività, per terminare anche in importanti istituzioni museali o in case di facoltosi magnati senza scrupoli dell’Europa Centrale (Germania, Svizzera, Austria).

Un dato significativo è quello di aver preso coscienza fin da subito di aver parlato con un piccolo esponente di una catena molto più ampia e articolata, al quale spettava una minima parte del valore degli oggetti trafugati, mentre ai trafficanti d’arte era riconosciuto un lauto compenso economico.

Il rapporto rischio-guadagno infatti non era per niente favorevole per gli scavatori clandestini che spesso vedevano la loro rischiosa attività remunerata con 20 o 30 mila lire (in proporzione, tra gli anni sessanta e oggi, corrisponderebbero a circa 100 euro) rispetto ai capitali investiti e agli enormi guadagni che entravano nelle tasche di persone al di fuori di ogni sospetto.

L’attività clandestina di A.B. si concluse nel 1976, quando fu assunto, paradossalmente, in un istituto di vigilanza della provincia di Taranto; così, terminato il nostro incontro, ci salutiamo cordialmente come ci eravamo presentati.

Procedo con la mia auto lungo un tratturo di un tipico vitigno pugliese.

Guardo oltre i filari. Chissà quanti tombaroli hanno trascorso intere notti a scavare proprio lì. Chissà cosa conserva ancora il nostro territorio. Chissà.

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